La verità sul naufragio di Lampedusa Quella strage si poteva evitare
Le foto di bambini, uomini e donne siriani morti nel naufragio dell’11 ottobre La morte di 268 profughi siriani, annegati l’11 ottobre a largo di Lampedusa, poteva essere evitata. Un’inchiesta de “l’Espresso” ricostruisce l’incredibile comportamento delle autorità italiane e l’effetto dei regolamenti europei. Ci sono state tre chiamate di soccorso via satellite ignorate. Due ore di attesa in mare. Per poi scoprire che l’Italia non aveva mobilitato nessun aereo, nessuna nave della Marina, nessuna vedetta della Guardia costiera. Anzi, dopo due ore, la centrale operativa italiana ha detto ai profughi alla deriva a 100 chilometri da Lampedusa che avrebbero dovuto telefonare loro a Malta, lontana almeno 230 chilometri. Due ore perse: dalle 11 alle 13 di venerdì 11 ottobre. Se gli italiani si fossero mobilitati subito o avessero immediatamente passato l’allarme ai colleghi alla Valletta, la strage non ci sarebbe stata.
Il peschereccio aveva a bordo tra i 100 e i 150 bambini, sul totale di almeno 480 siriani in fuga dalla guerra: la notte precedente, le raffiche di mitra sparate da una motovedetta libica avevano forato lo scafo che, alle 17.10, si è rovesciato ed è affondato. Un elicottero ha raggiunto il punto alle 17.30, sei ore e mezzo dopo la prima chiamata di emergenza. La prima nave militare maltese alle 17.51. Quelle due ore perse avrebbero permesso all’elicottero di arrivare alle 15.30, alla nave militare alle 15.51. E ai soccorritori partiti da Lampedusa, su un veloce pattugliatore della Guardia di Finanza, di essere operativi già poco dopo le 13 e non dopo le 18.30. Ci sarebbe stato insomma tutto il tempo per concludere il trasferimento dei passeggeri e metterli in salvo.
“L’Espresso” ha rintracciato l’uomo che con un telefono satellitare ha dato l’allarme alla centrale operativa italiana. È lui a denunciare il ritardo. Si chiama Mohanad Jammo, 40 anni. Ad Aleppo in Siria, una delle città distrutte dalla guerra civile, era il primario dell’Unità di terapia intensiva e anestesia dell’Ibn Roshd Hospital, un ospedale pubblico, direttore del servizio di anestesia e anti rigetto del team per i trapianti di rene, oltre che manager della clinica franco-siriana “Claude Bernard”. Nel naufragio il dottor Jammo è sopravvissuto con la moglie, ex docente universitaria di ingegneria meccanica, e la loro bimba di 5 anni. Ma ha perso i figli Mohamad, 6 anni, e Nahel, 9 mesi, i cui corpi non sono stati ritrovati.
La denuncia è confermata da altri due testimoni. Il primo è Ayman Mustafa, 38 anni, chirurgo di Aleppo. Il dottor Mustafa era partito con la moglie, Fatena Kathib, 27 anni, ingegnere ambientale, e la figlia Joud, 3 anni, scomparse in fondo al mare. L’altro testimone è Mazen Dahhan, 36 anni, neurochirurgo all’ospedale dell’Università di Aleppo. Anche lui è l’unico sopravvissuto della sua famiglia; la moglie Reem Chehade, 30 anni, farmacista e i figli Mohamed, 9, Tarek, 4, e Bisher, 1, sono formalmente dispersi. I tre medici sperano che la magistratura italiana apra un’inchiesta: «Noi», dicono a “l’Espresso”, «anche per questo imperdonabile ritardo, abbiamo perso le nostre famiglie. Non ha senso restare in silenzio e correre il rischio che la tragedia si ripeta».
Il dottor Jammo spiega: «Ho chiamato il numero italiano prima delle 11 del mattino. Ha risposto una donna. Mi ha detto in inglese: dammi esattamente la posizione. Le ho dato le coordinate geografiche. Le ho detto: “Per favore, siamo su una barca in mezzo al mare, siamo tutti siriani, molti di noi sono medici, siamo in pericolo di vita, la barca sta affondando”. Se hanno una registrazione, sentiranno esattamente queste parole: “Stiamo andando verso la morte, abbiamo più di cento bambini con noi. Per favore, per favore, aiutateci, per favore”».
Per un’ora e mezzo non accade nulla: «Richiamo il numero, sono circa le 12.30. Ripeto chi sono. È la stessa donna. Mi risponde: “ok, ok, ok” e chiude. Ma non succede nulla. Nessuno ci richiama. Richiamo io dopo mezz’ora. Ormai è l’una del pomeriggio. La donna mi mette in attesa e dopo un po’ risponde un uomo. Mi dice: “Guardate, siete in un’area sotto la responsabilità delle forze maltesi”. Dovete chiamare la Marina maltese. L’ho supplicato: “Per favore, stiamo per morire”. E lui: “Per favore, potete chiamare le forze maltesi, adesso vi do il numero…”. Dalla mappa vedevamo che Lampedusa era a soli 100, 110 chilometri. Malta ad almeno 230 chilometri. Per questo avevamo chiamato gli italiani».
Il dottor Jammo aggiunge che l’uomo non gli ha detto il nome, il grado o il ruolo: «Ma per colpa della centrale di soccorso italiana abbiamo perso due ore fondamentali. Era rimasto davvero poco tempo per noi. È l’una e comincio a chiamare e richiamare i maltesi. Alle tre del pomeriggio mi assicurano che in 45 minuti sarebbero arrivati. Alle quattro mi dicono: “Ok, siamo sicuri della vostra posizione, ma abbiamo ancora bisogno di un’ora e dieci minuti per raggiungervi”. Dieci minuti dopo le cinque tutti i nostri bambini sono annegati e non è arrivato nessuno».
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