Italiane stakanoviste per forza ecco perché tra casa e ufficio nessuna al mondo lavora di più

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ROMA — Sveglia alle 6.30, colazione, letti, figli a scuola alle 8, in ufficio alle 8.30, rientro alle 14, spesa, aspirapolvere, uscita dalla scuola, corsa per le varie attività pomeridiane della prole, nei ritagli di tempo aiuto ai genitori anziani, rientro, cena, pulizia della cucina, revisione compiti figli, sistemazione bucato, stiratura camicie. È la giornata tipo di una donna da record, la donna italiana, l’unica a svolgere ogni settimana in media 22 ore di lavoro retribuito fuori casa e 36 ore di lavoro domestico. Con la beffa di ritrovarsi in fondo alla classifica Ue per tasso di attività, un risicato 47% che non ci fa arrivare ultimi solo perché esiste Malta. È un paradosso
tutto italiano, emerso questa volta dallo studio dell’Ocse How’s life? 2013. Measuring wellbeing.
E che ha una spiegazione molto semplice: gli uomini italiani svolgono in media una quantità ridicola di lavoro domestico rispetto alle donne, 14 ore, 22 in meno rispetto alle loro compagne, 7 in meno rispetto alla media Ocse (32 per le donne).
Il gap non è solo italiano, certo. E l’Ocse sottolinea come il lavoro domestico delle donne sia quasi sempre più faticoso: quando le madri stanno in casa con i figli, cucinano o mettono in ordine. Quando gli uomini stanno in casa con i figli, spesso leggono il giornale o guardano la televisione. Però dall’indagine emerge chiaramente un “caso Italia”: le italiane sono in testa alla classifica (che comprende 25 dei 34 Paesi Ocse più Cina, India e Sudafrica) sia per le ore di lavoro totali che svolgono ogni settimana in più rispetto agli uomini (11) che per quelle di lavoro domestico. Lontane anni luce da Paesi come la Danimarca o la Svezia, dove il sovrappiù di lavoro domestico femminile rispetto a quello maschile è minimo (meno di cinque ore settimanali) e viene
compensato dalle ore di attività retribuita. Le danesi o le svedesi svolgono circa 28 ore a settimana di lavoro domestico, ma i loro compagni se ne sobbarcano 24-25, quasi il doppio rispetto agli italiani. «L’anomalia italiana è triplice — argomenta il direttore del Censis Giuseppe Roma — Un primo aspetto è che, soprattutto nel Mezzogiorno, per ragioni strutturali il ruolo delle donne presenta una differenziazione molto rilevante che le porta ad essere il centro della vita domestica, mentre gli uomini tendono a disinteressarsi del ménage familiare. Secondo, siamo un Paese a basso tasso di occupazione femminile, 47% nel primo semestre di quest’anno. E la crisi peggiora la situazione: quest’anno per la prima volta il numero delle donne che lavorano è sceso a 9,3 milioni, contro i 9,5 milioni del 2012. Le famiglie risparmiano su tutto, asilo compreso. E avvalersi di un aiuto domestico diventa troppo costoso. Si parla solo di taglio del cuneo fiscale, eppure se si permettesse alle famiglie di detrarre un terzo dello stipendio della baby sitter le donne sarebbero più motivate a lavorare fuori casa, e ne guadagnerebbero in autonomia».
«L’errore fondamentale», osserva Marcella Corsi, docente di Economia all’Università di Roma La Sapienza, è che «queste sono considerate problematiche che riguardano solo le donne, per cui si finisce per confinarle in una nicchia, se non in un ghetto, mentre se le donne non si attivano e non diventano risorse, è l’intera società a perdere». Corsi è una delle economiste del network “Ingenere”, che chiede da tempo in Italia un “pink new deal”, investimenti sociali per agevolare il lavoro di cura delle donne. «Qualche anno fa l’Isfol ha pubblicato uno studio sul tempo libero dopo la nascita di un figlio», dice la docente. «Per i maschi non cambia quasi niente, per le donne si riduce drasticamente il tempo dedicato alla cura della persona. E non s’intende il tempo per il parrucchiere: significa che una giovane madre spesso non riesce neanche a fare una doccia».


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