Prima orgoglio, ora imbarazzo La «decadenza» delle tessere

by Sergio Segio | 7 Novembre 2013 7:48

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Un tempo si andava orgogliosi per la “campagna di tesseramento” di un partito. Oggi la tessera di un partito rischia di diventare, se non il corpo del reato, il simbolo della degenerazione. Tessere gonfiate. Tessere comprate e vendute. Tessere scambiate. Il Pd viene sommerso di tessere false, farlocche, artefatte, contraffatte. Il Pdl non ha di questi problemi. Lì le tessere sono solo un pro forma: non le stampano neanche perché nel frattempo, nelle segrete stanze della corte, si decide di cambiare denominazione al partito. Tessere al macero. Una storia al macero.
La tessera aveva qualcosa di solenne, nella storia dei partiti della sinistra. Anche nella Dc, dove la tessera permetteva di entrare in uno dei partiti di cui si componeva il partito, detti anche “correnti”. La tessera era una, sempre con lo Scudo Crociato stilizzato. Ma le obbedienze erano diverse. Si era andreottiani più che democristiani, dorotei più che democristiani, morotei più che democristiani e così via. Eppure l’esito dei congressi nazionali non era mai scontato. Si lavorava nella penombra dei corridoi, per ottenere un risultato, e ogni corrente aveva il proprio emissario per sbrigare le faccende da trattare in luoghi appartati. Era una prassi abituale, nessuno si vergognava. È nel Pd che invece si è messo un meccanismo mostruoso di regole farraginose per evitare di essere troppo “partito” tradizionale. Hanno concepito un impianto cervellotico per adeguarsi ai princìpi della trasparenza e dell’apertura e hanno creato un ibrido in cui la compravendita delle tessere si accompagna al leaderismo sfrenato e “anti-partito” delle primarie. Con l’ossessione delle tessere, il grande corpaccione della Dc alla fine si dissolse. E prima che il partito tirasse le cuoia, ha ricordato Stefano Di Michele sul “Foglio”, il suo ultimo segretario, Mino Martinazzoli, si domandava che natura avesse una Democrazia cristiana «che passa le sue giornate a contare le tessere e le sue serate a commentare le encicliche». Magari: ora le tessere si contano a pacchetti. Ma le encicliche, chi le legge più, di giorno o di sera?
Le tessere dei partiti erano dei gioiellini della grafica. Nella sinistra tra socialisti, comunisti, psiuppini, marxisti-leninisti, gruppi della “nuova sinistra” e così via, era tutto un rincorrersi di figure della tradizione in cui ogni falce e martello aveva una forma particolare, e così il sol dell’avvenire, o il libro aperto sul futuro radioso della giustizia sociale. Per i militanti socialisti fu un trauma sostituire le vecchie tessere munitissime di falce e martello (retaggio del bolscevismo, amava ricordare Bettino Craxi) con quelle in cui campeggiava un più gentile garofano. Per quelli del Movimento sociale ogni volta era una sorpresa scoprire le dimensioni minacciose della Fiamma tricolore. Per le tessere del Pci ogni volta era una fatica grafica gravosissima quella di bilanciare il rosso del vessillo con il tricolore del partito “nazionale”, come Togliatti aveva voluto nel simbolo. Qualche volta la sagoma di Antonio Gramsci conferiva più umanità e meno retorica sovietica (bandiere che garriscono, muscolosi lavoratori che celebrano l’avanzata del socialismo, eccetera) a una tessera che era il santino laico che ogni buon militante doveva portarsi in tasca per dimostrare l’appartenenza alla grande e accogliente chiesa comunista di stampo nazional-popolare. A differenza della Dc, il Pci non conosceva guerra tra correnti e non ammetteva dissenso organizzato, secondo i ferrei princìpi del “centralismo democratico”. Dunque la tessera non era il voucher che consentiva di pesare nei congressi, non si pesava, ma consentiva l’ingresso nella collettività dei credenti. Era una forma di battesimo che mondava il neofita dai peccati contratti nella marcia società borghese e segnalava il marchio di una militanza in cui il personale si confondeva con il collettivo. O almeno, così avrebbe dovuto essere.
Perché con il tempo, diventati i partiti italiani macchine costose e tentacolari che occupavano ogni interstizio della vita civile e sociale, la tessera non era più solo il biglietto d’ingresso in un club privato, per quanto affollato. Era anche qualcosa che distingueva chi ce l’aveva da chi non ce l’aveva, da chi poteva dirsi affiliato a qualcosa di imponente e di importante e chi invece, inveterato cane sciolto, aveva optato per una non remunerativa solitudine. Nel ventennio della dittatura fascista, avere “la tessera” era tutto. Spalancava porte e opportunità e favori e cordate. Nella democrazia pluralistica, come aveva già notato Giuliano Amato suscitando oceani di polemiche, il primato del partito unico si è trasformato in quello dei partiti al plurale, lasciando però inalterato il meccanismo della “tessera” come chiave d’accesso altrimenti negato ai chi non ne può esibire alcuna. La tessera era il contrassegno della comunità dei credenti, ma anche la linea di demarcazione che divideva la comunità da chi ne restava fuori. Il partito “pesante”, appunto: con sezioni, apparati, federazioni. E potere. Oggi, dopo decenni di teorizzazione del partito leggero, la tessera o sparisce risucchiata nel culto del Capo (come nel Pdl, o nel movimento di Grillo) oppure viene svilita a chiavistello per forzare, persino con brogli e manipolazioni impudiche, la composizione di un partito molto scombinato, come il Partito democratico. Il leaderismo del partito leggero più il commercio delle tessere del partito pesante: l’Italia è sempre all’avanguardia.

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