Il Quirinale e la richiesta di grazia «che non è stata mai presentata»

by Sergio Segio | 6 Novembre 2013 8:56

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ROMA — È da tre mesi che il presidente della Repubblica cerca di ricondurre alla ragione la rincorsa politico-giudiziaria (e di sterilizzare le conseguenti febbri polemiche) sulla grazia a Silvio Berlusconi. Eppure i suoi sforzi per chiarire come stanno le cose, sgombrando attese improprie e interpretazioni interessate, non sembrano serviti a nulla. Dal centrodestra, infatti, c’è chi a giorni alterni insiste nel rivendicarla come un indispensabile strumento di “pacificazione” e ieri l’ha fatto (attraverso un’intervista destinata a uscire nel prossimo libro di Bruno Vespa) lo stesso Cavaliere. Per il quale Giorgio Napolitano «sarebbe ancora in tempo» a concedergli il provvedimento di clemenza e a garantirgli così la fatidica «agibilità politica».
L’anticipazione diffusa nelle ultime ore è troppo laconica per valutare su che cosa si fondino davvero le aspettative dell’ex premier. Una cosa però appare chiara: nessuno, né Berlusconi, né per lui la sua famiglia o i suoi avvocati, ha ancora presentato una domanda in tal senso. E questo fa venir meno una delle precondizioni indicate dal capo dello Stato nel messaggio del 13 agosto, quando il Quirinale volle chiarire formalmente i limiti entro i quali la sua (eventuale) azione avrebbe potuto dispiegarsi.
Il nodo, allora come adesso, ruotava intorno al medesimo punto equivoco: la convinzione che il presidente possa cancellare, in assoluta e insindacabile autonomia, gli effetti di una pena comminata da un tribunale, “liberando” motu proprio il condannato dalle conseguenze afflittive — cioè il carcere — per ragioni umanitarie. Napolitano spiegò che la realtà costituzionale, pur riconoscendogli in esclusiva la titolarità di quel potere, non consente scelte senza vincoli. Vale a dire che, in materia di clemenza, non esistono istituti giuridici alternativi cui il capo dello Stato possa ricorrere, traducibili in funzione di salvacondotto. Vanno perciò valutate “specifiche norme di legge”, una precisa “giurisprudenza”, “consuetudini costituzionali” e “prassi seguite in precedenza”, secondo le quali diventa “essenziale” un preciso passaggio: la presentazione di una domanda ad hoc. Cosa mai avvenuta e che il Cavaliere sembra escludere in quanto — stando alla logica che lo ispira — ciò equivarrebbe di per sé a un’ammissione di colpevolezza.
Tutto dovrebbe invece partire proprio da lì (a parte l’ovvia accettazione della pena e almeno un inizio di espiazione). La domanda, insomma, permetterebbe agli uffici tecnici del Colle di aprire “un esame obiettivo e rigoroso” della questione, per poi verificare se “sussistano le condizioni” tali da “motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale” (esclusa invece la pena “accessoria” dell’interdizione dai pubblici uffici con relativa incandidabilità: particolare decisivo, questo, in cui gli aspetti giuridici del rebus berlusconiano si sovrappongono fatalmente a quelli politici).
Il memorandum di ferragosto di Giorgio Napolitano era insomma trasparente e avrebbe dovuto tagliare corto su un certo gioco di speculazioni politico-giudiziarie, legate alla stessa sopravvivenza del governo. Perciò ha destato un certo stupore, ieri, vederlo rilanciato dal Cavaliere in persona. Come se quel lungo comunicato esplicativo non fosse mai esistito e tutte le suggestioni emotive legate alla grazia fossero riproponibili oggi, in una chiave magari politica e comunque preelettorale.
Marzio Breda

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