by Sergio Segio | 4 Novembre 2013 7:46
Una visita di sole sei ore, che Washington fino all’ultimo non ha confermato e che al di là delle affermazioni di entrambe le parti — Egitto e Stati Uniti — è apparsa ancora marcata da evidente tensione. John Kerry, il segretario di Stato Usa, ieri è arrivato al Cairo per ricucire i rapporti con il nuovo regime guidato de facto dal generale Adbel Fattah Al Sisi che il 3 luglio depose, con ampio consenso, il legittimo raìs Mohammad Morsi. Da allora nessun alto esponente del governo Usa aveva messo piede in Egitto. Invece, insieme agli appelli perché legalità e diritti umani fossero rispettati dopo il colpo di Stato che Washington non ha definito tale e dopo l’uccisione di un migliaio di sostenitori del presidente deposto, l’amministrazione Obama un mese fa aveva tagliato le forniture militari e gli aiuti economici, prima volta dal 1979, inasprendo i già tesi rapporti con lo storico alleato. Accusata dagli anti-Morsi di aver dialogato con il governo dei Fratelli musulmani nell’anno in fu al potere, e di averlo perfino sostenuto, l’America dopo il 3 luglio ha suscitato le ire anche dei pro-Morsi, sentitisi abbandonati, ma senza riguadagnare l’appoggio della coalizione vincente. Sia tra i politici sia tra la gente, in sintesi, Obama è al minimo della popolarità di un presidente Usa da decenni, perfino di quanto non lo fosse Bush.
«Nessuna punizione, ma una riflessione politica basata sulla nostra legge», ha detto ieri un Kerry conciliante nella conferenza stampa con il ministro degli Esteri Nabil Fahmi, definendo l’Egitto un «partner vitale» che «pare intenzionato a proseguire sulla via della democrazia». Poi, qualche ammissione di «problemi» e un impegno-richiesta: «La nostra alleanza sarà certo più forte quando questo Paese sarà rappresentato da un governo civile, inclusivo, eletto democraticamente e basato sul rispetto della legge e delle libertà fondamentali», ha aggiunto il segretario di Stato, comprendendo in tali libertà processi trasparenti ed equi ma volutamente evitando di accennare all’evento tanto atteso per oggi, l’inizio del processo al deposto Morsi, detenuto in isolamento da quattro mesi.
Un certo disgelo è emerso dal ministro Fahmi, che un mese fa aveva definito i rapporti con gli Usa «tempestosi» e ieri ha parlato di «impegno comune a riprendere relazioni normali». Poco invece è uscito dall’incontro di Kerry con Al Sisi, capo del Supremo consiglio militare, ministro della Difesa e (si dice) possibile futuro raìs. A lui, si è saputo in serata, il capo della diplomazia Usa ha chiesto di non prorogare le leggi d’emergenza oltre il 14 novembre previsto per la loro fine. Una speranza diffusa in Egitto, dove quelle leggi che danno assoluto potere a militari e sicurezza furono imposte da Mubarak per trent’anni. Ma la loro fine come gli altri sviluppi evocati da Kerry (governo civile, diritti umani…) dipenderanno da molte cose, e non sono scontati in un Paese che resta polarizzato ed intanto sempre più povero e disperato. L’America di Obama, probabilmente, resterà in attesa degli eventi, confermando la posizione di secondo piano assunta negli ultimi tempi in Medio Oriente. Difficilmente ritroverà il ruolo di un tempo anche nel Golfo: Kerry, dopo la prima missione difficile, se non impossibile, ieri ne ha affrontata subito un’altra, in Arabia Saudita. Un altro storico alleato, nonché cruciale partner economico, con cui i rapporti sono tesissimi. Il motivo questa volta non è la democrazia interna ma il Grande Gioco in corso nell’area, ovvero l’apertura di Washington a Teheran e il suo mancato attacco alla Siria. Decisioni che Riad non ha per nulla gradito.
Cecilia Zecchinelli
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