by Sergio Segio | 3 Novembre 2013 8:17
«Mi disse di essere amica dei Ligresti, famiglia nota anche perché il padre e due figlie erano state arrestate un mese prima, e un altro figlio era latitante — ricorda Cascini —. Mi segnalò il caso della figlia minore Giulia, dicendomi di essere molto preoccupata, perché si trattava di una persona che aveva avuto problemi di anoressia. Da quel che sapeva le sue condizioni di salute stavano peggiorando, e temeva che potesse lasciarsi andare a gesti disperati o di autolesionismo».
Per Cascini la telefonata del ministro non era insolita: «Da quando s’è insediata s’è dedicata con particolare attenzione ai problemi del carcere, e con lei o con il capo della sua segreteria ci sentiamo quasi tutti giorni. Così come quasi tutti i giorni arrivano segnalazioni su detenuti con problemi particolari; spesso anche dall’ufficio del ministro, con un appunto autografo del Guardasigilli: “Per Cascini, che possiamo fare?”. Di solito sono i casi più gravi o dolorosi».
È questo tipo di attenzioni, anche sollecitate da via Arenula, che secondo il vicedirettore del Dap dimostra l’infondatezza del teorema sui detenuti di serie A, seguiti sulla base di indicazioni altolocate, e detenuti di serie B abbandonati a se stessi. «Per quanto mi riguarda — sostiene Cascini —, avviene esattamente il contrario: noi ci occupiamo soprattutto dei reclusi di cui non si interessa nessuno. Io nell’ultimo anno ho fatto ai diversi direttori di carcere 1.200 richieste sulle condizioni di detenuti che esprimono disagio psichico o fisico, soprattutto stranieri abbandonati a se stessi. Le informazioni ci arrivano in ogni modo, per cognizione diretta o su interessamento di qualcuno dall’esterno: familiari, garanti per i diritti, dal Quirinale, dai radicali. E dal ministro. L’unica differenza, in questo caso, è che il ministro ha avuto notizia di un detenuto a rischio non per le sue funzioni istituzionali bensì per un rapporto privato di amicizia. Su questo ognuno può avere le proprie opinioni, ma per me che ricevo l’indicazione non cambia nulla: io devo verificare la situazione e prendere, eventualmente, le iniziative dovute».
Rieccoci allora a quella telefonata di metà agosto, peraltro arrivata quando le precarie condizioni di salute di Giulia Ligresti erano già all’attenzione di psicologi e periti del penitenziario. Che cosa fece Cascini dopo la chiamata del ministro?
«Niente — risponde lui — perché, come le dissi sapevo già di quel caso particolare seguito con attenzione da chi di dovere. Il mio ufficio si era attivato sin dai primi sintomi di malessere, e rassicurai il ministro. Per questo io, a mia volta, non ho chiamato nessuno, e soprattutto lei non mi ha più chiesto nulla. Il mio collega Pagano (l’altro vicedirettore del Dap chiamato dalla Cancellieri, ndr), invece, ha telefonato al provveditore regionale, che gli ha risposto la stessa cosa: sulla situazione di Giulia Ligresti erano tutti allertati e le sue condizioni erano seguite con attenzione, in pratica 24 ore su 24».
Sono particolari che, da soli, possono far capire le differenze tra due casi che qualcuno ha voluto mettere sullo stesso piano: l’ormai famosa telefonata di Annamaria Cancellieri e quella altrettanto famosa che fece Silvio Berlusconi alla questura di Milano, sulla vicenda di Ruby: a parte gli interessi privati in gioco, l’allora presidente del Consiglio non chiamò uno dei suoi principali collaboratori col quale parla quasi ogni giorno, bensì un funzionario mai sentito prima, provocando un’attivazione che nel “caso Cancellieri-Ligresti” non c’è stata poiché quel che di legittimo doveva attivare s’era già attivato.
«È del tutto evidente che io non mi sia sentito pressato o condizionato dalla segnalazione del ministro — spiega Cascini — anche perché quella richiesta di interessamento non è stata la prima, né probabilmente l’ultima. Ricordo quando mi telefonò all’uscita dal carcere di Regina Coeli dove aveva incontrato un uomo che aveva ucciso la moglie malata terminale, per non vederla più soffrire, detenuto e disperato da tanto tempo. Mi chiese se si poteva fare qualcosa per aiutarlo, come per la tossicodipendente che aveva visto a Sollicciano e pure l’aveva mossa a compassione. A volte riusciamo a fare qualcosa, altre volte no, ma il nostro impegno vale per tutti».
Anche per Giulia Ligresti, se fosse stato necessario. «Non è vero che ci siamo interessati perché era amica del ministro, ma se il caso non ci fosse stato noto io mi sarei attivato eccome; me ne sarei interessato personalmente, come faccio o cerco di fare per ogni situazione a rischio di cui vengo a conoscenza, in un modo o nell’altro. E sarebbe assurdo il contrario».
Giovanni Bianconi
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