by Sergio Segio | 2 Novembre 2013 9:56
Nell’audizione di 16 anni fa ci sono dettagli fino ad oggi inediti. Pezzi mancanti, pedine del complesso puzzle dei grandi traffici di rifiuti: «So che c’erano navi – fu la risposta ad una domanda precisa del presidente della commissione rifiuti Massimo Scalia – e che qualcuna è stata affondata nel Mediterraneo, però sono ricordi sbiaditi. Ricordo che una volta si parlò di una nave che portava rifiuti speciali e tossici, scorie nucleari, che venne affondata sulle coste tra la Calabria e la Campania, ma è sempre un discorso che è stato fatto in linea di massima fra noi». Ecco il trait d’union, il laccio che lega la storia delle navi a perdere con i traffici gestiti dai casalesi. E a il manifesto Schiavone aggiunge altri dettagli, che rendono ancora più preciso il ricordo: «Me ne parlarono Sandokan e De Falco, quindi riferisco quanto ho ascoltato e non vissuto direttamente – è la premessa importante del suo racconto – ci sono due navi affondate: una, se non sbaglio, tra Salerno e Paola. In quella zona fu inabissato un cargo che partì da Gaeta, mi pare, con roba nucleare, che doveva andare in Africa. L’affondamento è avvenuto tra il 1988 e il 1989». Non era la prima volta, ricorda: «Già nel 1982 venne affondata un’altra nave, quella volta carica di droga; anche in quel caso l’affondamento fu deciso per far sparire tutto, avevano intercettato il viaggio». La nave carica di rifiuti secondo Schiavone era stata «gestita sempre dalla P2, attraverso Cipriano Chianese e penso che anche gli uomini di Bidognetti avessero un ruolo in quella operazione. E magari anche con il coinvolgimento dei servizi. Quella nave doveva andare verso la Somalia mi raccontarono, e fu affondata in quel posto perché la intercettarono. Così mi fu raccontato».
C’è una novità importante, il movente dell’affondamento. Le navi – secondo Carmine Schiavone – venivano fatte inabissare per coprire il traffico illecito verso i paesi africani e non come forma estrema di smaltimento. Dunque non navi a perdere, ma il proseguimento delle rotte dei veleni. Un racconto che coincide con gli elementi certi raccolti nel tempo sui grandi traffici via mare, nell’epoca che ha preceduto la via Nord – Sud aperta dai casalesi.
Tra il 1986 e il 1988 sicuramente diverse navi italiane avevano trasportato scorie industriali verso l’Africa, il Medio oriente e l’America latina. Il manifesto ha raccontato negli anni scorsi le vicende della Zanoobia, della Rigel, e delle altre navi dei veleni. Carichi diretti in Libano, in Nigeria, nel Corno d’Africa e in Venezuela. E’ la prima volta – però – che un collaboratore di giustizia del clan dei casalesi riferisce – almeno de relato – di questi traffici. Lo scopriamo oggi, dopo la desecretazione dei verbali del 1997; ma – fatto non secondario – il racconto di Schiavone era noto al parlamento da tantissimi anni.
Il porto di Gaeta indicato dall’ex cassiere di Casal di Principe era già entrato in passato nelle indagini sui grandi traffici. Qui operava – ufficialmente negli anni ’90 – la società italo-somala Shifco, in partnership con il gruppo Panapesca, che qualche mese fa ha chiuso gli stabilimenti nel porto del sud pontino. Carmine Schiavone aveva inserito anche Gaeta nei luoghi interessati al traffico di rifiuti durante la sua audizione del 1997: «Questa era una nostra zona d’influenza – racconta a il manifesto – attraverso un nostro affiliato, Gennaro De Angelis». Un nome entrato in molte inchieste dell’antimafia, arrestato recentemente dal Ros di Roma, già citato dallo stesso Schiavone fin dal 1996, quando venne interrogato dai carabinieri di Latina. «Non ricordo se aveva contatti con i somali – prosegue Schiavone – lui diceva che faceva affari con gli africani».
Nella vicina Formia il radicamento del clan era di antica data, grazie agli investimenti della famiglia Bardellino. Un altro tassello, questo, del complesso mosaico della storia dei traffici: «Volete sapere del sud pontino? A Formia c’era un deposito che raccoglieva i fusti tossici, gestito da un socio dell’avvocato Chianese, con otto o dieci mila contenitori. Chianese era quello che aveva studiato tutta questa situazione», assicura.
La provincia di Latina era una vera e propria estensione del territorio casalese, con un confine che sfiora le porte di Roma: «Abbiamo fatto alcuni summit nella nostra masseria a Borgo Montello, dove il clan aveva acquistato delle proprietà, date in gestione ad un nostro parente, Michele Coppola. Lui aveva il porto d’armi, viveva lì con la famiglia. Qui facevano delle riunioni anche con Sandokan, e altra gente. Arrivavamo all’improvviso e di nascosto, avvisando solo dopo».
Il legame con Latina è poi confermato da uno dei documenti desecretati dalla presidenza della camera dei deputati. Nell’allegato ad una delibera della provincia di Massa Carrara che autorizzava nel 1988 l’invio dei rifiuti delle concerie a Caserta c’è un lungo elenco di targhe di camion, con i nomi dei trasportatori. Una quindicina di mezzi erano stati immatricolati proprio a Latina: «E parte di quei mezzi – racconta Schiavone – sono stati utilizzati anche per trasportare i rifiuti tossici a Borgo Montello, all’interno della discarica».
La desecretazione del verbale dell’audizione di Carmine Schiavone conferma in buona parte le sue interviste dei mesi scorsi, che hanno riportato l’attenzione sui grandi traffici di rifiuti e la contaminazione delle terre tra la provincia di Latina e quella di Caserta. Negli archivi della commissione presieduta da Massimo Scalia rimangono però molte carte riservate: «Leggendo gli atti desecretati non ho visto i verbali dell’Enea, che mi accompagnò sui luoghi che avevo indicato alla Criminalpol», spiega Schiavone. «Manca anche la documentazione sui sopralluoghi fatti con un elicottero partito da Pratica di Mare. Ricordo che quando arrivammo su uno dei luoghi che avevo indicato gli strumenti impazzirono e siamo dovuti scappare». Mancano all’appello anche i documenti su alcuni approfondimenti che la commissione sul ciclo dei rifiuti della XIII legislatura fece sui traffici in provincia di Latina. Sempre nel 1997 furono scoperti sedici mila fusti all’interno di un capannone a Pontinia: di quell’attività oggi non c’è traccia nella documentazione liberamente consultabile. Eppure quell’episodio venne ritenuto chiave nella relazione finale, che citava «indagini ancora in corso». Segreti di stato.
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/11/2013-11-02-09-59-06/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.