by Sergio Segio | 9 Novembre 2013 8:12
ROMA L’edizione «all stars» di quest’anno delle Vie dei Festival, ha portato tra le diverse sorprese, anche una edizione tutta particolare della tragedia del Vajont. Memoria di classe è un testo scritto nei primi anni novanta, alla vigilia del trentesimo anniversario del fatto avvenuto il 9 ottobre del 1963.
Non è casuale che quel trentennale, al termine della prima repubblica e del partito democristiano, sia stata la prima occasione di pubbliche commemorazioni di quella immane disgrazia. Come non è meno significativo che da quel momento sia stato proprio il teatro, quasi riprendendo le proprie originarie motivazioni civili, abbia dato il maggior contributo alla consapevolezza di massa: dallo spettacolo che si tenne proprio a Longarone in quella ricorrenza, al celeberrimo monologo che fece conoscere ed amare a tutta l’Italia Marco Paolini.
Maurizio Donadoni trasse quel testo dai materiali del giudice istruttore Fabbri, senza nulla aggiungervi. E l’altra sera al Vascello ne ha dato una «lettura» molto emozionante, perché attorno a lui c’erano otto adolescenti del bellunese, ognuno al suo banco scolastico, perché facevano riferimento a una classe che fu per intero spazzata via dalla violenza dell’acqua. Una sorta di Spoon river del Vajont, o di Piccola città alla Thornton Wilder. Con quei ragazzi che non solo rivivevano le proprie ultime ore, ma rinnovavano il dolore e la rabbia crudeli contro chi quella diga aveva voluto costruire, lungo tutta la metà del ‘900, ed era pronto a festeggiarla, incurante dei segnali sinistri che dava il monte Toc, che da tempo aveva cominciato a franare.
Il tutto ambientato in una ipotetica stazioncina ferroviaria della provincia veneta, dove il loro maestro racconta gli avvenimenti a un ignaro e muto compagno d’attesa. Uno spettacolo esemplare e «sporco», ma le piccole esitazioni o l’emozione birbona dei ragazzi, hanno accresciuto la carica drammatica della serata, che risulta comunque una serrata lezione di storia. Con i nomi delle grande aziende che ne furono responsabili, dalla Sade all’Enel che l’aveva nazionalizzata, e delle persone che le guidavano, dai conti Volpi di Misurata ai responsabili tecnici, ingegneri e geologi, che esaltati dalla grandeur della diga, non tennero in nessun conto le proteste degli abitanti (quasi una No Tav di mezzo secolo fa) e gli «avvertimenti» forniti dalla stessa montagna. Una tragedia di stato, anzi una vera strage, che raccontata da questi ragazzi, e dal loro entusiasmo, continua a fare orrore, appena mitigato dalla loro speranza.
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