Una forzatura usata dal Pdl per fini interni
Il timore di un verdetto «inquinato» a scrutinio segreto, nelle parole del ministro Graziano Delrio, ha spaventato il Pd; e dato vita a una maggioranza formata da Democratici, Scelta civica e Movimento 5 stelle. Il «sì» al voto palese, 7 contro 6, ha riesumato lo schema che aveva portato all’elezione di Rosy Bindi al vertice dell’Antimafia; e scatenato il centrodestra. Di nuovo, un colpo alle cosiddette «larghe intese»: sebbene anche stavolta l’esito ricompatti il Pdl nella condanna del comportamento degli avversari, ma non nell’atteggiamento verso il governo.
Il sospetto di avere reso un favore al «partito delle elezioni anticipate» affiora nettamente, sia tra i governativi del Pd che nelle file del Pdl. Se alcuni settori della sinistra inseguono ancora il sogno pericoloso di un ritorno alle urne, la decisione di ieri in Senato ha offerto loro un’altra arma: come l’ha regalata agli oltranzisti berlusconiani, i quali usano quel «sì» al voto palese come grimaldello contro la maggioranza anomala guidata da Enrico Letta. Additano l’inaffidabilità del Pd e intimano ai ministri del Pdl di scegliere con chi stanno. Uno di loro, quello alle Riforme, Gaetano Quagliariello, cerca di far presente che la decadenza di Berlusconi è un effetto della condanna da parte della Corte d’Appello di Milano e non del voto in commissione, pur criticato come «una schifezza».
Non solo. Il ministro consiglia di tenere «i nervi saldi»: tentare di far cadere il governo, al di là dei contraccolpi sull’opinione pubblica, porterebbe alla formazione di una maggioranza più ostile al centrodestra; e forse all’accordo su una legge elettorale punitiva, con elezioni anticipate alle quali il Pdl arriverebbe acefalo, vista l’incandidabilità del Cavaliere. E poi, non è scontato che la spallata riesca. Si è visto già il 2 ottobre, quando lo stesso Berlusconi ha dovuto virare in extremis e confermare la fiducia a Palazzo Chigi: l’unico modo per salvare l’unità del partito. Ma l’unità non c’è più, nonostante le apparenze. E l’ipotesi che una parte di senatori e deputati che vogliono evitare la crisi ci ripensino, sembra improbabile. I «falchi» lo sanno. Per questo esagerano la reazione: vogliono colpire i dissidenti prima che il premier.
Insomma, le simulazioni di crisi sono giocate soprattutto per motivi di potere interno. Berlusconi vuole isolare i fautori delle «larghe intese» bollandoli come «traditori» agli occhi dell’elettorato di centrodestra: quasi si trattasse di novelli Gianfranco Fini, l’ex presidente della Camera che strappò per primo e si è eclissato politicamente. Ma stavolta è meno facile, e non per l’incandidabilità del Cavaliere. A complicare le cose sono i numeri parlamentari, la crisi economica e la consapevolezza che da tempo l’ex premier perde voti, non li guadagna: non abbastanza per vincere, comunque. Il modo in cui Enrico Letta lo sfida mostra la certezza, si vedrà quanto fondata, che il governo abbia le forze per farcela in ogni caso; e che l’appoggio del Quirinale e dell’Unione europea lo renda più solido di quanto la sua maggioranza anomala farebbe presumere. Il traguardo è quello del 2015. Ma la strettoia della decadenza di Berlusconi non sarà un passaggio indolore.
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