by Sergio Segio | 31 Ottobre 2013 9:19
È un atteggiamento usuale e sempre più frequente tra i seguaci di una dottrina economica spiegare i guasti evidenti scaturiti dalle proprie ricette con l’argomento che queste ultime non sono state applicate fino in fondo o con il dovuto zelo: non è stato privatizzato a sufficienza; il lavoro non è stato reso abbastanza flessibile; la spesa sociale non è stata ridotta quanto necessario per abbattere la pressione fiscale sulla libera impresa, e così via. Non c’è da sorprendersene. Quando si fa poggiare la dottrina su una assiomatica, sulla pretesa di agire secondo la razionalità indiscutibile di una tecnica matematica, che sbaraglia il vacuo accapigliarsi delle opinioni, l’errore non può risiedere nei postulati, ma solo nella loro negligente applicazione, nella debolezza degli agenti. Del resto è fin dalle sue origini che la «triste scienza» si propone come indagine e illustrazione di quelle «leggi di natura» che guidano in ogni suo aspetto la vita dell’homo oeconomicus e cioè dell’essere umano tout court. La promessa di benessere dell’economia liberista non teme smentite, non si lascia turbare dai capricci della contingenza, l’esperienza empirica, la contraddizione patente tra previsioni e risultati, le sono del tutto indifferenti.
Il buio dell’inconoscibile
Jean Paul Fitoussi, nel volume Il teorema del lampione (Einaudi, pp. 218, euro 18), riassume questa presunzione dottrinaria con la nota storiella dell’uomo che cerca un oggetto perduto sotto la luce di un lampione, non perché l’abbia perduto in quel luogo, ma perché è l’unico ad essere illuminato. Non è però tanto ingenuo quanto sembra, il nostro uomo. Il buio, in fondo, è l’inconoscibile dove risulterebbe vano intraprendere una qualunque ricerca. Nulla vi si potrebbe comunque trovare. La luce del lampione è la sfera del conoscibile, rappresenta le sole categorie attraverso cui si possa attingere a una realtà intellegibile. Il nostro matto nottambulo è, né più né meno, che la caricatura di un filosofo trascendentale. La scienza economica, a sua volta, non intende brancolare nelle tenebre e perdere la presa su quel mondo che è in grado di conoscere condizionandolo. Per questa precisa ragione seleziona i soli fattori che è in grado di dominare.
Ma non è nelle alte sfere della filosofia teoretica che Fitoussi intende condurci, bensì attraverso il disastro della crisi economica che stiamo vivendo e la caparbia applicazione di terapie che accelerano il deperimento del malato, devastando il presente e ipotecando il futuro. Lo fa ripercorrendo con precisione e chiarezza le diverse tappe della crisi, dalla bolla immobiliare statunitense e il sovraindebitamento privato alla crisi dei debiti sovrani, dalla recessione alimentata dalle politiche di stabilità ai livelli di vita declinanti nei paesi industrializzati. Passaggi catastrofici dominati, scrive Fitoussi, da quella irrazionalità dei mercati «che porta a pensare che il futuro assomigli necessariamente al presente» e dunque a escludere le possibilità alternative che nel presente possono annidarsi, le scelte eterodosse che forse potrebbero condurci fuori dall’impasse. Il fatto è che non si tratta di «pensare» che il futuro debba riprodurre il presente, ma di volerlo e di agire in conseguenza, di difendere cioè «lo stato di cose esistente». Non si intende «interpretare il mondo», ma impedire che esso cambi. Non si tratta, detto in altre parole, di mancanza di fantasia ma di politica di conservazione.
Conservazione dell’oligarchia
Conservazione di che cosa? Di un rapporto di forze tra dominanti e dominati infinitamente favorevole ai primi, di un potere oligarchico fuoriuscito da qualsiasi forma di contratto sociale, di una enorme capacità di controllo e di ricatto sulle popolazioni. Il famoso «non ci sono alternative» non è presunzione teoretica ma volontà politica, imposizione di una gerarchia sociale che non ammette più intrusioni. L’insieme delle argomentazioni che l’economista francese mette in campo sono assai efficaci nell’illustrare come la crisi si avviti su se stessa moltiplicando i guasti che presume di riparare, e come il crescente divario tra i pochi ricchi e la massa crescente degli impoveriti non alimenti alcuna dinamica espansiva presente o futura, ma distribuisca sulla maggioranza della popolazione i rischi e gli «effetti collaterali» dell’azzardo sempre più spinto di cui l’accumulazione capitalistica ha bisogno per seguire il suo corso.
La «società del rischio» non è solo una condizione sociale o un esito storico della modernità, ma un efficace strumento di sfruttamento e valorizzazione del capitale. Ha però il difetto, l’impostazione adottata da Fitoussi, di imputare questo processo a una cecità dottrinaria convinta dell’efficienza e della razionalità dei mercati i quali sarebbero in grado, alla fine, se non ostacolati dall’intervento pubblico o da politiche di diverso orientamento sociale, di ristabilire l’equilibrio migliore. Si tratterebbe dunque di smontare il dogma della razionalità dei mercati per aprire la strada a politiche in grado di correggerne le «storture».
Ripetutamente, Fitoussi evoca l’avidità degli operatori finanziari attribuendole, almeno in parte, l’attivazione di quei dispositivi di moltiplicazione della ricchezza che in realtà la concentrano nelle mani di pochi e la distruggono nel più vasto contesto della società. Arroganza concettuale e avidità, due disvalori morali, due peccati capitali, sarebbero dunque i temibili demoni che reggono il timone della crisi facendo rotta verso tempeste sempre più rovinose. Non vi è dubbio che queste passioni negative esistano e giochino la loro parte. Ma interpretare l’accumulazione del capitale, la sua irrinunciabile vocazione a crescere e a colonizzare sempre nuove sfere, in termini di avidità è un bel salto all’indietro nell’analisi del capitalismo. Un rinchiudersi nell’orizzonte invalicabile del sistema, nella sottointesa convinzione che esso possa infine trovare un equilibrio. Che si possa giungere, insomma, a un «capitalismo sostenibile». Che la diseguaglianza radicale e lo squilibrio non ne costituiscano irrimediabilmente l’essere.
Alla prova dei fatti le cose non sembrano stare così: quando fattori storici, politici, sistemici bloccano il processo di accumulazione la violenza della crisi si incarica di aprirgli nuove strade. E quanto più questo blocco è ingombrante e persistente tanto più la gestione della crisi assume i tratti di una forma di governo di lunga durata. Nei paesi dell’Europa meridionale, in diverse gradazioni, si è visto con chiarezza come la «terapia della crisi» si sia trasformata nell’elemento che caratterizza stabilmente il rapporto tra governanti e governati. Non nel senso di un vincolo esterno, ma in quello di una riconfigurazione restrittiva della democrazia, che si estenderà ben oltre la contingenza economica.
Una viziosa leggerezza
Insomma, per volerci esporre a nostra volta all’accusa di affezioni dottrinarie, potremmo dire che la critica dell’economista francese non può spiegare del tutto ciò che giustamente denuncia perché omette l’elemento della lotta di classe, del rapporto di forza, delle linee di frattura che attraversano le formazioni sociali della modernità. Lotta condotta con una determinazione strabiliante e un formidabile dispiegamento di mezzi a partire dagli anni Settanta contro l’insieme delle classi subalterne ed estesa poi a quella loro parte riuscita a trasformarsi nel cosiddetto «ceto medio». Quando si lamenta lo spazio sottratto dall’economia alla politica si trascura quasi sempre di sottolineare l’estrema «politicità» della ratio economica che quello spazio ha occupato. L’enorme polarizzazione della ricchezza non è l’opera di nessuna «mano invisibile», né l’effetto di un mercato «distorto», ma un obiettivo politico perseguito e raggiunto con grande dispiego di violenza. Nonché l’obiezione più forte contro la tesi di quanti sostengono, in particolare per quanto riguarda i paesi mediterranei, che la crisi del debito sia il frutto di una viziosa leggerezza interclassista, una colpa collettiva avulsa dai rapporti di classe nazionali e internazionali.
Alternative senza gambe
Volendo tornare all’aneddoto che da il titolo al libro, ci sono precise ragioni per le quali il lampione è stato piantato esattamente in quel posto e perché tutti gli oggetti che si trovano al di fuori dal suo cono di luce non interessano o debbano essere cancellati. Se l’unità di misura universalmente utilizzata è quella del Pil, non è certo perché gli economisti ignorino che aspetti decisivi della vita umana, della vita sociale e dello stesso benessere materiale, non possono esserne misurati, ma perché il ricorso a quella unità di misura corrisponde a una gerarchia, a una precisa geografia del potere, a uno schema di azione politica. E quando la scienza economica si ingegna a correggere la misura del Pil affiancandogli altri indicatori è solo perché nuove sfere vitali sono entrate a far parte del processo di valorizzazione del capitale e devono dunque essere incluse nella sua «contabilità» e ricondotte alla sua assiomatica.
Così, anche l’analisi della crisi europea che Fitoussi ci sottopone, non senza centrarne aspetti decisivi, come gli effetti deleteri indotti da una pretesa di competizione tra le economie dell’eurozona (destinata a riprodurre e inasprire gli squilibri) e dall’assenza programmatica di una politica economica continentale, risente della medesima accentuazione sull’«errore» dottrinario e sulla limitatezza dell’orizzonte tecnocratico a scapito di una analisi del ruolo politico svolto dalle élite, nei singoli stati e nello spazio complessivo dell’Unione, volto a perseguire una drastica riduzione della complessità democratica.
La formula che individua il male dell’Europa nel dualismo di una governance europea dotata di strumenti ma priva di legittimità, e di sovranità nazionali dotate di legittimità ma prive di strumenti, finisce col celare il dissolversi, nella rude evoluzione dei fatti, dell’idea stessa di legittimità, col nascondere quella rottura unilaterale del patto sociale da parte dei poteri dominanti che si è già ampiamente consumata nei singoli stati non meno che in quegli organismi di governo europei che dei rapporti di forza esistenti tra quegli stati restano l’espressione. Cosicché gli stessi rimedi, le alternative, l’esame razionale dei fattori di crisi non è chiaro su quali gambe possano marciare. A meno che il lampione non si trasformi in un sole che illumina l’insieme della realtà. Ma questo è improbabile e certamente gli interessi messi a fuoco dalla sua luce non intendono consentirlo.
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