Una carta a misura di globalizzazione

by Sergio Segio | 17 Ottobre 2013 7:10

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Gli attacchi alla Costituzione italiana, il cammino di riforma a marce forzate imposto dalla maggioranza delle larghe intese, hanno sospinto i temi costituzionali alla ribalta delle cronache politiche quotidiane. Cosa può significare oggi difendere la Costituzione? Su quale terreno si può installare oggi un’opposizione alle tendenze presidenzialiste e neoautoritarie che si manifestano in questo progetto di riforma? Come riattivare il potenziale emancipatorio della Costituzione del 1946? Ma, più radicalmente, esiste ancora questo potenziale? Oppure bisognerebbe prendere atto che la globalizzazione, la crisi della rappresentanza, le trasformazioni del lavoro, della produzione, delle soggettività individuali e collettive hanno consumato oramai in modo irreversibile il terreno costituzionale classico, rischiando di rendere testimoniali o comunque inefficaci le battaglie che si installano su quel terreno?
Gaetano Azzariti è un giurista impegnato in prima linea nel dibattito pubblico, con il lavoro scientifico e dalle pagine di questo giornale, e direttamente partecipe in questi anni sia nelle battaglie civili per la Costituzione, sia nel lavoro di raccordo tra pensiero giuridico e movimenti dei beni comuni, dalla Commissione Rodotà alla campagna referendaria. Ma questo Il costituzionalismo moderno può sopravvivere? (Laterza, pp. 2011, euro 20) ha l’ulteriore merito di adottare uno sguardo lungo sulla crisi che attraversa il nostro presente. La domanda che anima tutto il libro sceglie infatti di andare al centro della questione, ai presupposti stessi della tradizione del costituzionalismo europeo.
Vincoli territoriali
Il richiamo di Azzariti è alla memoria della scienza giuridica, alla sua consapevolezza di essere fortemente radicata all’interno di concreti rapporti storico-sociali, in precise costellazioni spaziali, in un nesso inscindibile con il suo cuore politico: il diritto è sempre spazialmente e politicamente collocato, e la sua forza progettuale è data solo dalla capacità di mantenere il suo radicamento. Esplicito è il riferimento a Carl Schmitt: ma non al Carl Schmitt oggi più ricorrente, e spesso utilizzato in modo spropositato e retorico, dello stato d’eccezione e della teologia politica, quanto alle piste meno battute, ma più problematiche e fruttuose, dello Schmitt del Nomos della Terra, delle riflessioni sugli ordinamenti giuridici concreti, e sul difficile rapporto tra diritto, radicamento territoriale e collocazione spaziale. Proprio in questo rapporto vive, per Azzariti, il dramma del costituzionalismo moderno. Il costituzionalismo va preso estremamente sul serio nella sua capacità formativa e ordinante: il suo paradigma, la sua stessa identità, sta nell’essere un complessivo progetto di fondazione, e, allo stesso tempo, di limitazione del potere legittimo. Sottrarre al costituzionalismo questa sua specifica pretesa di mettere in forma, di progettare, di imprimere la propria forza normativa sulla realtà, sui rapporti politico-sociali , significa dichiararne la morte in quanto costituzionalismo moderno.
È qui molto forte la polemica contro le diverse teorizzazioni che guardano alla frammentazione degli ordinamenti costituzionali, ai dispositivi multilevel della governance contemporanea, ai processi di «autocostituzionalizzazione» settoriale dei singoli sistemi giuridici, come all’unico orizzonte disponibile nella società globalizzata. Il costituzionalismo non può essere semplice descrizione di processi che le forze politiche e sociali determinano altrove. Il costituzionalismo sta e muore insieme alla sua forza formatrice e unificatrice, insieme alla capacità dei testi costituzionali di valere come decisione politica fondamentale e fondamento di validità normativa dell’intero ordinamento. Non è per nulla certo che questa forza normativa possa conservarsi di fronte alle trasformazioni globali: ma assumere il costituzionalismo moderno sul serio significa anche rifiutarsi di addolcire le conseguenze della sua crisi, cercare facili scorciatoie assumendo significati deboli, frammentari e più sociologizzanti che propriamente giuridico-politici di cosa può essere significare oggi «costituzione». Per Azzariti, sarebbe necessario invece guardare alla crisi con estrema consapevolezza, anche drammatica, ma allo scopo di salvare il portato emancipatorio del progetto moderno, conservarne la forza normativa e fondatrice, e, al tempo stesso, fare i conti con le trasformazioni globali, con il moltiplicarsi delle differenze, con la nuova porosità dei confini nazionali.
Si tratta di un difficile tentativo, di collocarsi «né con la Patria né con l’Esodo», come scrive Azzariti ricordando una felice formula del sociologo del «pensiero meridiano» Franco Cassano. Un diritto che si spinge sino al confine, capace di stendersi tra i rischi di un cosmopolitismo universalista che sgancia i diritti da qualsiasi concretezza storico-sociale, e l’incapacità delle tradizioni nazionali di superare il trauma della rottura delle antiche frontiere. Un diritto capace di farsi meticcio, rispetto all’omogeneità tradizionale delle cittadinanze nazionali, ma senza illudersi di poter scivolare nello spazio liscio di principi universali astratti e privi di qualsiasi capacità di presa politica concreta.
Ambivalenze del giuridico
La sfida sta nel riconfigurare i concetti chiave della tradizione costituzionalista moderna, senza abbandonarli: sapere che i diritti non abitano più lo spazio chiuso, circoscritto, e omogeneo della tradizione nazionale, significa, per Azzariti, immaginare un nuovo complesso ius loci, capace di conservare la concretezza del radicamento entro precisi rapporti politici e sociali, coniugandola però con la ricchezza delle nuove differenze. Senza questa capacità di traduzione e di mediazione tra collocazione spaziale e processi globali, tra concretezza e astrazione, c’è il rischio che i diritti cosmopolitici si trasformino in diritti eterei, volatili e sostanzialmente inutili.
Guidato da questa opzione generale di fondo, Azzariti costruisce così una complessa cartografia del mutamento costituzionale, che attraversa i temi più controversi del diritto pubblico contemporaneo, dal multiculturalismo, con le nuove difficoltà poste dai diritti culturali e dall’eterogeneo campo delle differenze, alle ambiguità dei diritti umani, sino al nuovo ruolo delle Corti sovranazionali. La giurisprudenza della Corte di giustizia europea, per esempio, è sospesa, secondo Azzariti, in una significativa ambivalenza tra un’effettiva opera di allargamento dei diritti e un’innegabile controtendenza a sacrificare i diritti sociali alle ragioni dell’impresa. Anche qui, la posizione di Azzariti è chiara: la consapevolezza della crisi del costituzionalismo moderno nazionale non apre a nessun entusiasmo per una nuova centralità dei giudici. Il portato emancipatorio della tradizione del costituzionalismo deve essere riafferrato dalla politica, mentre confidare nei giudici come tutori dei diritti in Europa è segno di uno sguardo acritico sui processi di costituzionalizzazione sovranazionali.
Il giurista di Azzariti, insomma, vuole abitare la «sottile striscia di terra tra roccia e fiume», per dirla con Reiner Maria Rilke, salvare una concretezza possibile, una (relativa) forza normativa, pur abbandonando gli spazi storici, nazionali, entro cui il diritto moderno si è formato, e dovendo di necessità affrontare i rischi aperti dai processi globali. Il punto, però, è che proprio la serietà intellettuale con la quale Azzariti assume tutta la densità dei presupposti di quel diritto costituzionale, finisce per far assumere toni quasi tragici a quest’aspirazione alla traduzione, al «conservare trasformando», al tentativo di salvare la buona concretezza del Moderno nella pericolosa fluttuante astrazione. Proprio perché la forza normativa del costituzionalismo moderno era saldamente radicata all’interno degli spazi politici del Moderno, è difficile immaginare che alla sua crisi si possa rispondere con una nuova mediazione. Proprio se si assume con serietà la forza della specifica collocazione del costituzionalismo, diventa difficile immaginare di traghettare il portato emancipatorio moderno all’interno del mondo globale.
La forza di astrazione dei processi di globalizzazione non è solo nel segno del disorientamento e della perdita del radicamento, ma produce continuamente, come del resto ben ricorda Azzariti, precisi dispositivi «positivi» di controllo, di sfruttamento, di estrazione di valore: il giurista non dovrà allora solo difendersi dallo shock prodotto dal liquefarsi delle architetture moderne in cui è nato e cresciuto, ma dovrà anche essere capace di inventare strumenti del tutto nuovi per ampliare gli spazi di libertà e di riappropriazione della democrazia, in un mondo dove quest’ultima non va tanto difesa, ma piuttosto riconquistata e reinventata.
La democrazia da inventare
Tutto ciò richiede necessariamente una forte discontinuità con un costituzionalismo normativo, che aveva a che fare con un mondo della produzione, del lavoro e della proprietà che nulla sapevano delle nuove forme di relazione sociale e delle nuove modalità di assoggettamento prodotte dal capitalismo finanziario. E richiede inoltre un saper agire con decisione nella stessa dimensione spaziale dell’avversario, rifiutando strategie di rinazionalizzazione delle politiche e delle tutele giuridiche, che a questo punto costituirebbero solo un inefficace ripiegamento difensivistico, spiazzato in partenza. Allo stesso modo, ogni progetto di rivitalizzazione del cuore «politico» del costituzionalismo moderno deve fare i conti con il fatto che le soggettività individuali e collettive su cui poggiava quel progetto di integrazione, hanno conosciuto una trasformazione radicale: le costituzioni, come sono state tirate dall’alto dai processi di globalizzazione, così sono state sfidate dal basso da nuove esperienze soggettive, nuove forme di vita, certo forse disorientate e limitate, ma anche molto ricche di capacità cognitive, di potenzialità creative e comunicative, dotate di estrema mobilità: soggettività, differenze, esperienze, ritmi di vita che difficilmente possono essere trattenute dentro le figure del soggetto giuridico, individuale o collettivo, che sorreggevano il progetto moderno.
Se ha ben ragione Azzariti a criticare chi si limita ad accompagnare la logica della frammentazione, e a rivendicare un atteggiamento produttivo, progettuale e costruttivo, resta il fatto che riuscire davvero ad attraversare il postmoderno senza diventare deboli o cinici, più che con una difficile operazione di salvezza della forza normativa ed emancipativa del progetto moderno, ha forse molto a che fare con la capacità di inventare nuovi processi istituenti e costituenti, che conferiscano durata e stabilità alle forme di vita di queste soggettività.

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SCAFFALI
Storia e significato della dignità

Dignità è un termine antico, ma che solo recentemente è tornato con forza nel lessico politico. Merito soprattutto dei movimenti sociali e indigeni dell’America Latina che lo hanno fatto diventare una arma teorica per contrastare le «politiche di rapina e di espropriazione» che hanno caratterizzato gli anni del neoliberismo – per l’America latina il neoliberismo è iniziato nel 1973 con il golpe in Cile. Solo da un decennio «la dignità» ha superato il confine messicano per entrare negli Stati Uniti e, più recentemente, l’Atlantico per sbarcare in Europa e, come un virus, si è poi diffuso nel Mediterraneo. Colpisce positivamente il fatto che un filosofo della politica come Michael Rosen abbia affrontato la storia e il significato della «Dignità» nel pensiero politico europeo. Lo ha fatto nel coinciso libro «Dignità» pubblicato da Codice edizione. Un saggio stimolante, ma aperto a una non episodica discussione dopo che il termine è stato impugnato, con tutta la sua ambivalenza, nelle rivolte degli indignados, nelle cosiddette primavere arabe e in Grecia

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