Un carcere senza troppe sbarre

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Quanto sappiamo delle carceri italiane? Della reclusione e della frustrazione di chi passa venti ore al giorno in una cella? Sicuramente troppo poco. Ecco il primo pensiero che viene in mente leggendo il libro di Carlo Mazzerbo e Gregorio Catalano Ne vale la pena (Nutrimenti, pp. 189, euro 16. Il volume sarà presentato a Romas, all’interno del Salone dell’editoria sociale di Roma il 2 Novembre, ore 12, Via Galvani 108), eppure questo è un trattato sui generis che parla di speranza e di esperienze concrete, quelle del carcere di Gorgona, isola al largo di Livorno, isola felice. Mazzerbo ne è stato direttore per anni e lì, in quell’universo ristretto, è stato capace di realizzare l’idea contenuta nell’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Storie di detenuti, ma soprattutto storie di uomini quelle raccontate in queste pagine; ogni capitolo è diverso, da quello sul progetto-scuola per la rieducazione culturale alla band musicale «Dentro», formata da detenuti e forze dell’ordine. La voce narrativa, quella del direttore del carcere, è un punto di vista particolare, né completamente interno né esterno alla realtà di Gorgona, e questo offre a chi legge una visione completa dell’umanità dei detenuti e del loro desiderio di ricominciare a vivere, ma anche delle logiche carcerarie.
Nella scrittura si sente una sorta di ingenuità, data da uno scrittore alle prime armi, che si sofferma molto su alcuni dettagli secondari, come il trascorso prima di arrivare a Gorgona, e poco su altri fondamentali, come la possibilità concreta offerta ai detenuti di inserirsi in società dopo il carcere. Tuttavia Mazzerbo riesce a sostituire il sentimento di estraneità verso chi compie un crimine con la partecipazione, la comprensione per quello che spesso è stato solo un errore.
In queste pagine è possibile recuperare il senso che dovrebbe avere il carcere, un momento di crescita più che di punizione. Non una vendetta dello Stato, dunque, ma un tentativo di recuperare una risorsa umana, di reinserirla in un contesto civile. Si possono però insegnare la solidarietà, l’impegno sociale, la cooperazione? Per la maggioranza delle carceri, la risposta è negativa. Alla Gorgona, invece è positiva. In quel carcere, si va contro una cieca applicazione della legge e si tende a favorire la creatività, la crescita e il senso di responsabilità dei detenuti.
Un’anomalia, dunque, visto che il sistema carcerario italiano tratta spesso i detenuti come rifiuti da smaltire, da lasciare sempre in cella perché così è più facile il controllo. Come ricorda anche Mazzerbo, solo al 13% dei reclusi è data la possibilità di lavorare, il resto di loro esce dal carcere non avendo una concreta possibilità di ricostruirsi una vita, senza lavoro e spesso con pochi affetti. In questa situazione, la possibilità di un ritorno alla delinquenza aumenta vertiginosamente. Alla Gorgona vige invece una logica opposta a quella dominante.
La conclusione più importante a cui giunge il libro è che il progetto della Costituzione non è utopico, ma può essere concretamente applicato, e il «modello Gorgona» ne è un esempio. Per adesso la situazione è ben lontana da quella prevista dalla legge: il detenuto è solo un peso morto, in nessun modo restituisce ciò che ha tolto alla società. E le carceri diventano un onere sempre più opprimente per lo Stato, ciò aumenta il malcontesto sociale e la situazione di emarginazione di chi ha finito di scontare una pena. Nel progetto di Mazzerbo, però, si ipotizza un’autosufficienza dell’istituto di reclusione, che attraverso il profitti del lavoro dei carcerati può trasformare il bilancio da negativo a positivo, rendendo il carcere una risorsa che non toglie, ma restituisce qualcosa allo Stato.


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