Tibet, i soldati sparano sulla folla dopo lo “sciopero delle bandiere”

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PECHINO — Lo “sciopero delle bandiere” fa riesplodere lo scontro fra Pechino e il Tibet. A cinque anni dall’ultima rivolta di massa, le truppe cinesi hanno aperto il fuoco sulla folla nel villaggio di Nagchu, nella contea di Driru. I feriti sarebbero una sessantina, alcuni ricoverati in gravi condizioni a Lhasa. Le forze dell’ordine avrebbero usato anche gas lacrimogeni: tra le vittime ci sarebbero donne, vecchi e bambini. Scintilla dell’attacco, il rifiuto di un uomo di esporre la bandiera cinese sul tetto di casa.
Pechino nei giorni scorsi aveva ordinato che il primo ottobre, per onorare l’anniversario della vittoria della rivoluzione di Mao, anche tutti i tibetani alzassero il vessillo rosso con le cinque stelle gialle. Dorje Draktsel, contadino di Nagchu, non ha obbedito ed è stato arrestato. In sua difesa si sarebbero riunite centinaia di persone e un gruppo di pastori nomadi avrebbe minacciato di assaltare una caserma cinese se il recluso non fosse stato liberato. La notizia della rappresaglia di Pechino si è sparsa in tutto il Tibet, comprese le regioni di Sichuan, Gansu e Qinghai, e lo “sciopero delle bandiere” sarebbe dilagato. Centinaia di tibetani avrebbero ritirato le effigi cinesi, simbolo del dominio imposto con la forza nel 1950, per rialzare le tradizionali stoffe colorate, note come preghiere lamaiste.
A diffondere fuori dal Tibet storico la notizia di scontri e proteste è stata Radio Free Asia, finanziata dal Congresso Usa. Il governo cinese ha rifiutato qualsiasi commento, e per i media stranieri è impossibile verificare direttamente i fatti. Il Tibet resta chiuso alla stampa estera e le linee internet risultano interrotte. La polizia di Pechino, dopo il conflitto a fuoco, avrebbe sequestrato ai manifestanti cellulari e fotocamere, chiudendo l’unica strada che collega Nagchu con Lhasa. Alcuni esuli tibetani hanno confermato sommossa e repressione, aggiungendo che decine di insorti sono stati raggiunti da proiettili alle braccia e al torace, oltre che alle gambe. L’ordine del comando cinese sarebbe stato dunque quello di uccidere.
In queste ore la tensione è risalita anche nello Xinjiang, altra regione ribelle abitata dalla minoranza uigura, il governo cinese ha ordinato all’esercito lo stato di massima allerta. A preoccupare di più però resta il Tibet, dove negli ultimi tre anni oltre 120 persone, in maggioranza monaci e suore buddhisti, si sono dati fuoco per denunciare la colonizzazione cinese. Pechino ha usato il pugno di ferro, arrestando centinaia di religiosi, chiudendoli nei “campi di rieducazione” e incriminando per sovversione i parenti dei suicidi. Nei giorni scorsi il presidente Xi Jinping ha esortato i cinesi a recuperare i valori delle “religioni tradizionali”, buddismo compreso. Un segnale di distensione smentito nel giro di poche ore.


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