Statali, liquidazione a rate e stipendi fermi

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Parlare di legge di Stabilità, la vecchia Finanziaria, vuol dire parlare di forbici: piccoli e grandi tagli, come quelli alle detrazioni per le spese sanitarie e i mutui, che servono a far quadrare i conti dello Stato. Ma nel testo arrivato ieri al Senato c’è anche una forbice che si chiude, la differenza nello stipendio medio fra il dipendente pubblico e il lavoratore privato. La busta paga dello statale viene congelata almeno per un altro anno, con il blocco della contrattazione per tutto il 2014. Viene poi sospesa fino al 2017 l’indennità di vacanza contrattuale, che in teoria dovrebbe compensare proprio i mancati rinnovi. Cambiano le regole anche per la buonuscita, pagata in una sola tranche soltanto se al di sotto dei 50 mila euro. E vengono tagliati gli straordinari (rieccole le forbici) del 5% per poliziotti, militari e vigili del fuoco, del 10% per tutti gli altri. Il risultato? Si potrebbe azzerare quel distacco nella retribuzione media pro capite che nel 2011 era di 1.600 euro: 27.811 euro lordi l’anno nel pubblico contro i 26.190 nel privato. Sarebbe l’approdo finale di una scelta precisa, contenere i costi per gli stipendi della macchina statale, che ha attraversato almeno gli ultimi tre governi.
Nel 2005 la differenza era ancora maggiore, oltre 2.500 euro in più, senza nessuna giustificazione dal punto di vista della produttività. E l’anno dopo sarà la Corte dei conti a prescrivere quella medicina che viene somministrata ancora adesso in Italia e non solo: «Il deterioramento del quadro di finanza pubblica – si legge nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato – può essere ricondotto solo in misura modesta alla stagnazione dell’economia». Cosa serve, allora? «Vi è l’esigenza di ridefinire gli indirizzi della contrattazione nel pubblico impiego e le normative sulle assunzioni e sui blocchi in modo da fronteggiare la questione assai grave del sistematico sforamento di ogni limite prefissato da parte dei redditi da lavoro delle pubbliche amministrazioni». Dal posto fisso allo stipendio fisso. Nel senso di congelato, senza aumenti. Un compito non facile. E infatti il primo risultato arriva nel 2011. Dopo 31 anni di crescita continua, la spesa totale per gli stipendi dei dipendenti pubblici inverte la rotta: 170 miliardi, in calo dell’1,6% rispetto all’anno precedente. Un risparmio possibile non solo con il blocco dei contratti che nel 2014 arriverà al quinto anno di fila. Ma soprattutto con lo stop al turn over che, rimpiazzando solo in parte chi va in pensione, ha fatto dimagrire la pianta organica del settore pubblico. Tra il 2006 e il 2011 sono stati di fatto cancellati 230 mila posti, il 6% del totale, e siamo così scesi a quota 3,4 milioni.
Ma se per il bilancio dello Stato i conti cominciano a tornare, abbassando la lente di ingrandimento viene fuori che ci sono anche altri problemi. In alcuni settori ci sono troppi dipendenti e in altri troppo pochi, ma spostarli è un’impresa. Non solo. Ogni tentativo di premiare il merito, di fatto, è rimasto sulla carta. Dice la stessa Aran, l’agenzia che rappresenta la Pubblica amministrazione in sede di contrattazione, nel rapporto sulle retribuzioni del giugno scorso: «Non si può non rilevare che la prosecuzione sulla linea del blocco contrattuale sposterà nuovamente in avanti l’eventuale adozione di misure più selettive». E questo perché le «misure sinora varate hanno agito essenzialmente come tagli lineari e indifferenziati, rischiando di indebolire o di arrestare del tutto i processi di innovazione».
Già nel 2009 avevamo la burocrazia più anziana d’Europa. Un dipendente su due ha più di 50 anni, contro il 25% di Francia e Regno Unito. E la riforma Fornero avrà un «effetto onda» che allargherà ancora questo ennesimo spread. Un carta d’identità fresca non è garanzia assoluta di apertura all’innovazione. Ma probabilmente aiuta. E invece ogni ipotesi di staffetta generazionale è stata per il momento accantonata per provare a risolvere, senza dannose sanatorie, il problema dei quasi 200 mila precari, mentre i 70 mila vincitori di concorso ancora aspettano di essere assunti a causa del blocco del turn over. Ma forse quello che serve è proprio una sterzata verso misure selettive. Altrimenti il rischio è quello che già negli anni Settanta, quando il problema era l’inflazione, un giovane Sabino Cassese chiamava «proletarizzazione» del pubblico impiego. Solo un dato per farsi un’idea: nei primi sei mesi di quest’anno, dicono le tabelle di Assofin, il numero dei dipendenti pubblici che ha chiesto un prestito garantendo in cambio la cessione del quinto dello stipendio è salito del 5,4%.
Lorenzo Salvia


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