Soffia il vento del 25 luglio

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 DINO Grandi, per sicurezza, si era presentato avendo in tasca una bomba a mano in tasca, forse due. Per diversi anni, prima che fosse scalzata dai Pooh, la scena terminale dei gerarchi seduti attorno al tavolo del Gran Consiglio del Fascismo fu visibile nel Museo delle Cere di piazza Santi Apostoli. E non è un modo di dire, ma fra quel luogo allora un po’ polveroso e Palazzo Venezia, dove effettivamente andò in scena la caduta del Duce, e dall’altro lato Palazzo Grazioli, dove in questi giorni si è rinserrato Berlusconi, si distende un sintomatico ed enigmatico triangolo che a percorrerlo sono davvero pochi passi.
Com’è ovvio, e anche per mettere le mani avanti, con il Cavaliere non si sa mai. Vero è pure che questa storia, quest’immagine del 25 luglio va avanti, o meglio spinge sotto la scorza della cronaca politica da qualche anno, censita per la prima volta nel giugno del 2009 nei pressi del caso D’Addario in un editoriale di Giuliano Ferrara sul Foglio.
Eugenio Scalfari l’ha richiamata un mese e mezzo fa: «Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni». Eccolo, dunque — e come allora sembra chiudersi un ventennio.
Potenza degli anniversari. In Italia oltretutto la storia replica con facilità, di solito con previsto quanto inopportuno precipizio nella commedia. Per cui si ha qualche ritegno a intraprendere il giochetto delle identificazioni. Chi è Grandi? Chi è Ciano? E chi Bottai? Ma certo, come il Mussolini di allora, anche Berlusconi mostra segni di stanchezza, l’insonnia l’ha debilitato, in uno dei non rari momenti di autocommiserazione l’ha annunciato lui stesso, insieme ai chili persi, che però non si vedono, anzi.
Come spesso accade quando va giù un potere, ci sono cose, immagini, stranezze che fanno ridere e insieme lasciano sgomenti. Chi abbia visto il video di Berlusconi che l’altroieri scendeva dall’auto nel cortile di palazzo Grazioli non riesce a togliersi dalla testa che quel vecchio con gli occhiali da sole si stringeva curiosamente tra le braccia il cagnolino perché era l’unica creatura di cui quell’uomo solo, quel capo ormai in bilico poteva giustamente fidarsi. E quanto ai traditori, che copiosamente hanno già preso a manifestarsi fra i tanti beneficati dal Cavaliere, suona al tempo stesso buffo e patetico il tono dell’Esercito di Silvio: «Come polvere li spazzeremo via».
Tutto lascia pensare che fino all’ultimo anche Berlusconi era sicuro di poter recuperare il controllo della situazione. Con il senno di poi si capisce meglio quella specie di drammatica rivendicazione nell’assemblea dei gruppi parlamentari: «Ho deciso da solo, nella notte». Seccato, seccatissimo che si potesse pensare a una decisione impostagli da qualcun altro. Allo stesso modo, con quanto sta accadendo in queste ore, colpisce per la sua superba irrealtà quell’altra frase sulle dimissioni di massa accolte come «il dono più bello per il mio compleanno».
E’ tutto un mondo che se ne sta crollando. Altro che «panni da lavare in casa», di qui a poco voleranno gli stracci e se ne vedranno di luridi da far spavento. E quando il Cavaliere ha risposto al Cicchitto che avrebbe potuto esporgli il suo dissenso a cena, beh, capirà presto a suo spese che in questi momenti chi volta la schiena lo fa di norma in silenzio e che l’omaggio è quasi sempre parente all’oltraggio.
Poi sì, certo, tutto può sempre accadere. Ma intanto l’inaudito è che a Berlusconi si è rivoltato un pezzo della sua stessa vita. Anche Mussolini ordinava e riceveva dalla Polizia rapportini segreti sui gerarchi. Ma quando i ministri del suo stesso partito mettono in chiaro di non voler subire il «metodo Boffo» vuol dire che la guerra di Palazzo, con i suoi scheletri e i suoi veleni, è già cominciata da un pezzo. C’entra la vita, più che la politica. Non
sempre e non fino alla fine il padrone, anche il più ricco e il più umano, dispone dell’altrui fedeltà operando con lusinghe e punizioni.
Sullo sfondo s’intravedono gli archetipi più inconfessabili e più brutali del potere. Il parricidio — e qui viene da pensare a quanto Berlusconi volle solennemente certificare ai genitori di Alfano, che gli voleva così bene da considerarlo un figlio. Quante cose vane si dicono quando a dominare è l’istinto del comando. Quello stesso che però ad un tratto svanisce, o si sgretola, o si ribalta nel suo contrario, e allora succede che la fine, la caduta, il precipizio arrivano di gran corsa con l’indispensabile collaborazione della vittima. Ed è troppo presto, ma certo già da quella maledettissima serata a Casoria — aprile 2009, all’apice del successo e con tanto di fazzoletto da partigiano al collo — s’era come innescato un dispositivo di autodistruzione, e l’uscita di scena è tale proprio e semplicemente perché impossibile da negare.
Poi si abbattono le statue e i busti, si dimenticano gli ossequi, si rinnegano le venerazioni, e dal 25 luglio tutto si avvia verso il futuro — magari anche con la speranza di evitare l’8 settembre.


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