Siria, fuga dalla guerra, tre volte profughi

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BEIRUT. I controlli agli ingressi dei campi palestinesi nel sud del Libano si vanno infittendo, come nei momenti più caldi. Stavolta però non sono le tensioni interne a preoccupare i soldati del Paese dei cedri, ma la presenza massiccia di profughi palestinesi provenienti dalla Siria dentro i campi. «Una presenza che rischia di far saltare vecchi e delicati equilibri», ci spiega Abu Yassin storica figura del campo di Bourj al Shamaly, «che intanto mette in ginocchio quelle isole di assistenza che associazioni coraggiose come Beit Atfal Assomoud hanno da anni messo in piedi».
All’ingresso del campo di El Buss ci sono un gruppo di giovani appoggiati ad un muretto semidistrutto, uno di loro saluta e cerca di capire chi ha davanti, bastano poche parole per scatenare un fiume in piena. Si chiama Jamal e viene dalla periferia di Damasco, dal campo di Yarmuk, il più grande campo palestinese in Siria. Jamal è arrivato in Libano da quattro settimane e solo una settimana fa è riuscito a trovare una casa dentro il campo. Mi spiega che abitare in un campo riconosciuto dall’Unrwa (l’ente Onu per l’assistenza ai profughi palestinesi ndr) è fondamentale per poter ricevere gli aiuti. Un fischio c’interrompe, lo chiama un altro ragazzo per raggiungere velocemente un negozio che vende capi di vestiario. È sempre Abu Yassin a spiegarci che da quando sono arrivati i «siriani» i negozi dentro i campi sono proliferati, come i prezzi. In Libano sono circa 71mila i rifugiati palestinesi arrivati dalla Siria e le cifre rendono da sole la portata di questa ennesima diaspora. Inoltrandoci nelle stradine di El Buss, campo alle porte di Tiro, il traffico e il via vai della gente ci fa capire che qualcosa è cambiata dall’ultima volta che siamo venuti. E la presenza dei bambini, molti dei quali piccolissimi, è impressionante. In certe vie sembra di essere in una scuola materna. Arriviamo di fronte ad una vecchia struttura ospedaliera. Era stata costruita dall’Olp alla fine degli anni Settanta, quando questa organizzazione aveva fatto del Libano uno dei paesi più avanzati in fatto di welfare di tutto il mondo arabo. L’ospedale però non vide mai l’inaugurazione, prima la guerra civile poi l’uscita dell’Olp e di Arafat da Beirut sentenziarono la fine di quella straordinaria esperienza. Da allora era abbandonato, preda dei giochi dei ragazzini e di qualche traffico non proprio limpido. Oggi qui hanno trovato riparo molte famiglie provenienti dalla Siria.
E qui che incontriamo Ahmad, seduto su di un muretto con la moglie e le due figlie. Ahmad in Siria era architetto, e «non se la passava male», ma un giorno la sua casa viene distrutta dalle forze di polizia che entrano nel campo alla ricerca dei terroristi ribelli. Lui non si perde d’animo, la ricostruisce e mette su un gruppo di giovanissimi che hanno l’ambizione di contrastare la violenza che impera ovunque intensificando le attività culturali. È un gruppo scout, proprio per non avere problemi e non essere confusi con gruppi paramilitari. La cosa insospettisce lo stesso i servizi segreti siriani che iniziano a sospettare di lui. Si sente in pericolo e alla fine decide di lasciare il paese. Non ama particolarmente Assad, ma non si definisce un oppositore, anzi ci racconta che poco prima di decidere di abbandonare la sua casa, in uno scontro rimase ferito un uomo della sicurezza siriana, lui lo aiutò tirandolo fuori dalle macerie di un muro crollato e portandolo in un ospedale. Ora vive una realtà paradossale che racconta quasi a volerla esorcizzare. Sua moglie è siriana e non essendo riuscito a trovare una casa ad El Buss, vivono a Tiro. Nonostante la moglie e la residenza a Tiro per l’Alto commissariato per i rifugiati lui è palestinese e aiutarlo spetta all’Unrwa. Per l’Unrwa invece il fatto che non viva dentro i confini del campo è un impedimento insormontabile per dargli qualsiasi tipo di assistenza. Ci sarebbe un’altra soluzione, i suoi fratelli e un cugino della moglie vivono in Germania, paese che avrebbe accettato di far entrare una quota di siriani per ragioni umanitarie. Ma pur avendo presentato tutti i documenti richiesti Ahmad torna ad essere palestinese e quindi inaccettabile, perché Berlino la quota l’ha riservata ai soli cittadini siriani. Vecchie e nuove prevaricazioni, che in Libano sono ben conosciute dai palestinesi. Finale della storia Ahmad e la sua famiglia stazionano fra il campo e le strade di Tiro cercando di capire cosa fare.
Tornando a Bourj El Shamali, il campo si snoda attraverso una fittissima rete di viuzze che salgono e scendono. In una di queste vive Murad, anche lui fuggito dall’orrore siriano. Ha voglia di sfogarsi con noi. Murad viveva fuori dal campo di Yarmuk, appena fuori Damasco nella strada che conduce diretta verso il Golan. «Sono dovuto scappare di casa perché i combattimenti erano diventati quotidiani e non si poteva più uscire». Alla richiesta di dare un giudizio su Assad non ha tentennamenti, «certo quello di Assad è un regime, ma almeno avevamo i diritti, qui in Libano tutto è diverso, noi palestinesi siamo trattati come animali. Che senso ha dover scegliere fra diritti e libertà?». Insiste a chiedermi che senso ha tutto questo, fissandomi negli occhi, come a cercare una risposta impossibile.
Ma la storia più toccante è senza dubbio quella di Mona Younes, che partecipa all’incontro fra la gente del campo di Bourj El Shamali e il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila. La donna racconta di aver perso il padre e una sorella a Chatila nei drammatici giorni di settembre del 1982. Abitava lì, la sua famiglia si era trasferita alcuni anni prima da Tel Al Zatar. Altro campo, altra tragedia. Dopo il massacro dell’agosto ’76 – che, ricorda, venne perpetuato dalle truppe al servizio del maggiore Lohad, capo dell’Esercito del Libano del sud, una sorta di brigata di rinnegati al servizio diretto di Israele – e l’inizio della «guerra dei campi» nel 1985 decisero di andare in Siria, lontani da guerre e persecuzioni. Oggi si ritrova in Libano, sempre in fuga da conflitti che sembrano non volerla abbandonare. È un popolo che da oltre sessanta anni è in fuga da un paese all’altro del Medio Oriente. È proprio la denominazione di «popolo itinerante» che usa la direttrice del centro psicologico del campo di El Buss mentre ci spiega la situazione di impotenza che gli operatori del centro affrontano ogni giorno. Aumentano le persone da assistere e diminuiscono i fondi. Oggi – ci dice – siamo a tre volte le persone assistite fino a qualche mese fa e i casi sono sempre più complessi. Ad esempio ci sono i bambini che arrivano dalla Siria affetti da turbe psichiche causate sia dalla guerra che dalle immagini crudeli che si susseguono nelle tv: «Non si staccano mai dalle madri, piangono, non dormono, si urinano a dosso, hanno malattie “viaggianti” che si manifestano in varie parti del corpo… Con loro – ci spiega la direttrice – abbiamo iniziato un programma di socializzazione dove raccontano quello che pensano e i loro desideri, riscuotendo un buon successo». Ma si dovrebbe fare molto di più, ce lo ripetono tutti. Tanto più perché il governo libanese non presta nessuna assistenza ai palestinesi di Siria, solo ai siriani doc.
Ma fra tante cose negative c’è un fattore che dimostra la grande voglia dei palestinesi di restare comunità unità. Come accadde durante la prima Nakba del 1948 anche stavolta con le settimane i profughi palestinesi provenienti dalla Siria vanno riunendosi sempre più per luogo di provenienza. E il filo di una memoria storica che viene da lontano e che nelle loro menti non può che riportarli nella loro terra, la Palestina.


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