SE L’ACCOGLIENZA DIVENTA TORTURA

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Il primo è imposto proprio dalla immane tragedia di Lampedusa. La legge Bossi-Fini va spazzata via (come chiesto a gran voce anche dalla decine di migliaia di lettori che stanno sottoscrivendo l’appello lanciato da Repubblica), perché costituisce l’esempio più clamoroso della violazione da parte del nostro ordinamento dei principi di civiltà giuridica che impongono di fuggire la torsione criminalizzatrice delle emergenze sociali, tradendo così, nel paese di Cesare Beccaria, proprio quel diritto penale mite evocato dal presidente della Repubblica quale strada maestra per una soluzione strutturale e non solo contingente dell’emergenza carceraria.
Non solo è del tutto disumana ed inutile la risposta penale al fenomeno dell’immigrazione. Non solo è intollerabile la politica dei “respingimenti” la cui sola definizione evoca autentico orrore. Non solo è stato semplicemente criminale dissuadere il soccorso in mare con l’ampliamento e l’aggravamento delle ipotesi di favoreggiamento. Ma la Bossi- Fini ha anche trasformato in autentici lager i cosiddetti centri di accoglienza che presentano condizioni di disumanità ben peggiori di quelle, già inaccettabili, delle nostre carceri. Come raccontano le cronache incredule di queste ore, se nelle carceri vi è un problema di sovraffollamento in ambienti sottodimensionati per circa il trenta per cento degli spazi necessari, nel centro di accoglienza di Lampedusa i disperati sopravvissuti salvati dalla gente sono ora trattati dallo Stato letteralmente come bestie, fuori all’addiaccio, alla pioggia notte e giorno, protetti soltanto da sacchi di spazzatura. Sono il 300 per cento in più di quanti la struttura ne può ospitare. La situazione quindi, in questa triste graduatoria, è dieci volte peggiore di quella carceraria, e riguarda persone colpevoli di nulla. Molti di loro sono “richiedenti asilo” perseguitati da condizioni di guerra e di discriminazione nei Paesi di provenienza, ma la nostra disciplina criminogena permette che le relative pratiche giacciano anche per un anno e mezzo, nel frattempo imponendo il sostanziale “sequestro” presso i cosiddetti centri di accoglienza, tramutati in tal modo in luoghi di supplizio e oggettiva tortura.
Ed allora se è vero che è della disumanità carceraria che ci stiamo preoccupando prima ancora va risolta con decreto di urgenza questa autentica vergogna. Del resto la stessa Corte costituzionale già nel 2007, se per i limiti intrinseci del suo potere dovette definire inammissibili le questioni poste a carico di quella scellerata normativa, allo stesso tempo fu esplicita nel «rilevare l’opportunità di un sollecito intervento del legislatore volto ad eliminare squilibri e sproporzioni». Allora cos’altro si attende? Non era stato un bel segnale che la missione di ieri sull’isola di Letta e Barroso avesse in un primo tempo trascurato proprio il passaggio da quel lager quasi a voler rifiutare il confronto con la realtà. Bene che poi si sia pur frettolosamente rimediato ma ora si dia seguito intervenendo con atti di urgenza, anche quale prova della genuinità del riscontro ai principi umanitari posti a base dell’appello dolente del capo dello Stato.
Qui vi è poi l’altra prova del nove per dissipare ogni nebbia di sospetto. Se è davvero la disumanità della condizione carceraria quella che preoccupa, non vi è bisogno di largheggiare né con indulti né con amnistie, che sono istituti con ben diversa ratio e finalità. Il legislatore cui anche ieri la Consulta ha rinviato la questione, può e deve semplicemente commutare le pene in corso, dalla custodia in carcere alla detenzione domiciliare. Questo consentirebbe di abbracciare anche un novero più ampio di fattispecie e di reati, senza dare l’odiosa sensazione dell’impunità e scongiurando ogni tentazione di mascherati colpi di spugna, che (attenzione) potrebbero riguardare non solo direttamente Berlusconi (come sarebbe infine grottesco) ma, ancor più furbescamente, una serie di suoi scomodi imputati in correità (dalle olgettine ai Lavitola e ai Tarantini) nonché altri reati di colletti bianchi che vedono qui e lì interessati pure altri partiti a Roma come in periferia. Una ragione in più per tenere alta la guardia e dissipare ogni pur malevolo dubbio, nella gigantesca anomalia italiana dove persino la questione carceraria incrocia il personale destino di chi, pur portatore di conflitti crescenti a dismisura, sta ancora lì a incagliare la dinamica istituzionale.
Due banchi di prova dunque che possono consentire il ritorno ad una politica che affermi la propria più alta autonomia.


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