Sbatti il velo in faccia al tiranno

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PARIGI — «La mia eroina Tahirih è una poetessa persiana dell’Ottocento che si ribella alle autorità e alla sharia, la legge islamica, dapprima con le parole. Ma la vera rivolta, che non le verrà perdonata e pagherà con la condanna a morte, è un’azione: a un certo punto si toglie il velo. È quello il vero gesto di rottura, tanto coraggioso da essere insopportabile per il potere costituito. Questo per dire che non bisogna sopravvalutare la letteratura: sarebbe bellissimo se i libri potessero davvero cambiare il mondo . Ma credo che i fatti concreti, le azioni, abbiano una forza superiore».
È forse per un po’ di modestia da scrittrice che Bahiyyih Nakhjavani ridimensiona la capacità delle parole nel cambiare il mondo. Nata in Iran, cresciuta in Uganda, educata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la signora Nakhjavani da qualche anno vive in Francia, dove insegna letteratura americana. A Genova, al festival «L’altra metà del libro» che si apre oggi, parlerà di quel che, per lei, scrittrice iraniana e cosmopolita, è la parte difficile da affrontare in letteratura: se stessa, e la religione.
«Le donne persiane non sono portate al racconto autobiografico — dice —. Facciamo finta di sì perché l’industria editoriale occidentale ce lo chiede, ci proviamo, ma troviamo sempre il modo di nasconderci sotto qualche velo. Anche io, per parlare del bisogno femminile di ribellione, ho preferito ricorrere a una sorta di allegoria, ho trasferito la storia nell’Ottocento e ho fatto rivivere, come in una fiaba, le gesta di Tahirih nel mio romanzo La donna che leggeva troppo (edito da Rizzoli, ndr )».
E la religione? «Per noi scrittrici iraniane anche quel tema tende a ricadere ne “l’altra metà del libro”. Stavolta l’industria culturale occidentale preferirebbe non insistere, perché preferisce la laicità e teme il fondamentalismo. Eppure la religione è l’elefante nella stanza che facciamo finta di non vedere. In Medio Oriente, e in particolare in Iran, la religione, islamica o un’altra, è una forza della natura, è un elemento primordiale, come le tempeste di sabbia o la siccità, ma in letteratura preferiamo non occuparcene, lasciando tutta la fatica a giornalisti, commentatori, accademici.
Nel mio romanzo La bisaccia ho cercato di liberarmi di questa abituale reticenza e ho parlato di un gruppo di pellegrini di diverse religioni, in viaggio tra La Mecca e Medina a metà del XIX secolo, che affrontano ognuno a loro modo l’incontro con una bisaccia dotata di poteri speciali. E in fondo affronto il tema religioso anche in La donna che leggeva troppo ».
Quindi la sua «altra metà» non è troppo nascosta…
«Forse perché non penso di essere fatta di due parti, ma di molte… E del resto il vero Grande libro è così vasto che racchiude sicuramente molto più di due metà… E i nostri piccoli libri sono solo punteggiatura al suo interno».
Lei è una scrittrice nata in Iran ma ha lasciato da bambina quel Paese per vivere in molti Paesi. Quindi, come diceva, molto più di una doppia identità?
«Sì, credo di essere una persona multipla, senz’altro legata alla tradizione iraniana, ma soprattutto cittadina del mondo, davvero cosmopolita. È qualcosa di legato anche alla mia religione bahai, che ha questa nozione fondamentale di un unico mondo. I bahai sentono di essere a casa nel posto in cui si trovano a vivere. Ho un nonno sepolto in Africa e una nonna in Canada, ho vissuto a lungo negli Stati Uniti… Sento che una parte di me è ovunque».
Il suo è un tipo di cosmopolitismo un po’ fuori moda, questi sono tempi di ossessivo recupero di origini, radici, tradizioni, identità, spesso contrapposte.
«È vero, in questo sono fuori moda. Il ripiegamento identitario è tipico dei periodi di crisi, le persone hanno paura e si rinchiudono. Eppure spero che sia una fase passeggera».
A che cosa sta lavorando adesso? Ancora storie del passato?
«Non mi piace parlarne perché ho paura che svelandone il segreto la cosa scompaia… Comunque basta Ottocento, mi sto occupando dei giorni nostri e in particolare della diaspora iraniana. Siamo tantissimi, in tutto il mondo, sempre più integrati nei Paesi di accoglienza. Troverete iraniani a Roma, Helsinki, Melbourne. Quelli di Los Angeles sono più americani degli americani. E allo stesso tempo, conservano questo legame fortissimo col Paese d’origine, l’Iran. O meglio, con il Paese dei loro sogni, che non vedono più da molto tempo: un Iran fiabesco, un po’ disneyano, che non è mai esistito».
Pensa che la diaspora iraniana avrà modo di tornare un giorno in una Teheran più libera e aperta?
«Non sono politologa, ma mi pare che negli ultimi due decenni il popolo iraniano si sia trasformato. Nessuno vuol più accettare violenza e oscurantismo, in particolare le donne, che non tollerano più l’ipocrisia. Credo che si tratti solo di una questione di tempo, ma nel cuore e nella mente delle persone, il regime è già caduto».


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