by Sergio Segio | 17 Ottobre 2013 7:12
JALALABAD (BESHUD). Saracha è un villaggio di contadini del distretto di Beshud, alle porte di Jalalabad, la principale città della provincia orientale di Nangarhar, a due passi dal confine con il Pakistan. Per raggiungerlo si deve lasciare il congestionato centro della città, puntare verso sud-est e costeggiare le alte mura di cemento dell’aeroporto di Jalalabad, che ospita una base militare americana e include la Forward Operating Base Fenty, uno dei centri strategici della guerra: da qui partono molti dei silenziosi e micidiali droni diretti in Afghanistan e Pakistan; questa diventerà una delle basi principali degli americani, se la Loya Jirga afghana (il gran consiglio) accorderà l’immunità ai soldati a stelle e strisce per il post-2014, come chiesto dal segretario di Stato Kerry, pochi giorni fa a Kabul.
Superato l’aeroporto, continuando per un paio di chilometri, sulla sinistra si affaccia una stradina sterrata che porta a Saracha. Stretta tra due case, sembra una via chiusa, senza uscita, ma una volta imboccata si apre su campi rigogliosi, per poi passare accanto al cimitero del villaggio. Da qualche giorno, nel cimitero ci sono tre nuove tombe, tre cumuli di terra alti ricoperti di arbusti per evitare che i cani randagi scavino in cerca di carne non ancora decomposta. Lì sotto ci sono i corpi senza vita di Sahebullah, Wasihullah e Amanullah, tre dei cinque ragazzi uccisi a Saracha venerdì 4 ottobre da un attacco aereo dalle forze Isaf-Nato. Per i soldati stranieri erano “insurgents”, Talebani, pericolosi terroristi. Per gli abitanti di Saracha sono dei martiri, uccisi senza ragione. Così recita lo stendardo bianco su cui sono impressi i loro nomi, la loro età, i versetti del Corano.
Il luogo del raid e le cinque vittime
Wasihullah ed Amanullah erano fratelli. Vivevano in una casa in mezzo ai campi, a un chilometro dal cimitero, insieme ad altri quattro fratelli e a quattro sorelle. É una famiglia contadina, numerosa, quella di Qasim Hazrat Khan, il padre di Wasihullah e Amanullah. Mi viene incontro sudato, con un camicione marrone sgualcito, appiccicato alla pelle a causa dell’umidità. Mi conduce subito sul luogo dell’attacco aereo, in uno spiazzale dietro casa. Mi indica i posti dove ognuno dei ragazzi era seduto quella sera. Mostra sul terreno i fori dei proiettili. Ne conto almeno una ventina, lunghi una decina di centimetri, profondi. Raccolgo i resti di alcuni dei proiettili usati, pezzi di metallo deformati dall’esplosione. I colpi sono arrivati fin quasi alla casa. Quello più vicino alle mura è ai piedi di una balla di fieno, davanti a una tettoia sotto la quale una mucca, due vitellini e qualche gallina spelacchiata si proteggono dal sole. «Questa è la nostra casa, la nostra vita. Siamo gente che lavora la terra. É un posto tranquillo, pacifico, questo», ripete Qasim Hazrat Khan, che ancora non si capacita di quel che è successo.
Ci sediamo dall’altro lato della casa, su tre letti con le corde intrecciate, addossati alle pareti esterne. Qasim Hazrat Khan racconta di quella sera, dei suoi figli. Amanullah aveva 21-22 anni (da queste parti l’anagrafe non esiste, nei villaggi molti non hanno carta d’identità). Aveva studiato fino all’ultima classe delle ‘superiori’, la dodicesima, poi si era messo a lavorare (il padre mostra un tesserino secondo il quale Amanullah lavorava per le forze governative afghane, dal 4 marzo 2013). Era sposato e aveva tre figlie. Suo fratello Wasihullah aveva 10 anni, frequentava il quinto anno in una scuola del villaggio di Samarkheel, poco distante. Quella sera era contento perché c’era anche un suo amichetto, Sahebullah, un ragazzino di 14 anni. Sahebullah era andato a scuola fino alla settima classe, ma da qualche mese «stava facendo un apprendistato in un’officina di Jalalabad per imparare il mestiere di fabbro». A raccontarmelo è Nader Shah, suo fratello. Ha 35 anni, indossa un abito marrone, in testa ha il tradizionale cappello pakul. Viene a sedersi insieme a noi, porta con sé la foto incorniciata del fratellino: «Prima che Sahebullah jan morisse, eravamo 9 fratelli e una sola sorella», spiega, senza riuscire a trattenere le lacrime.
Con i fratelli Wasihullah e Amanullah e l’amichetto Sahebullah, quella sera c’erano altri due ragazzini: Asadullah Delsos e Gul Nabi. Il primo, cugino dei due fratelli, «14 anni, aspettava che gli crescessero i baffetti sulle labbra», mi dicono; l’altro, racconta Qasim Hazrat Khan, «era un ragazzino di 15 anni, la cui famiglia si è trasferita qui da Pachir, nel distretto di Khogyani. Da un po’ di tempo lui faceva il carpentiere a Kabul, ma tornava ogni volta che bisognava lavorare la terra».
L’attacco delle forze occidentali
La sera di venerdì 4 ottobre, sul piazzale aperto alle spalle della casa di Qasim Hazrat Khan c’erano tre ragazzini sui 15 anni, un ragazzo di 21 e un bambino di 10. Avevano passato la serata «a sparare agli uccelli con dei badì (fucili da caccia, ndr). Da queste parti è normale, lo abbiamo sempre fatto. Non erano mica degli yaghì (ribelli, ndr) i miei ragazzi».
Poi, improvvisamente, gli spari dall’alto, ricorda Qasim Hazrat Khan. «Erano le 21.40-22 quando ho sentito la prima di tre lunghe sequenze di spari. Stavo dormendo e mi sono alzato. Sono seguiti dei minuti di silenzio. Sono salito sul tetto per vedere meglio. Ho visto almeno due elicotteri e, più in lontananza, gli aerei senza pilota. Poi c’è stata una seconda sequenza di spari. I bambini hanno cominciato a piangere. Ho spinto dentro quelli che erano saliti sul tetto. Sono risalito. Vedevo solo le luci rosse sul terreno sotto casa».
Qasim Hazrat Khan racconta della terza raffica, della concitazione, delle telefonate fatte agli amici per capire come comportarsi, del sangue che inspiegabilmente gli colava sulla bocca, delle voci che si accavallavano e che non riusciva a decifrare. E poi di quella frase terribile, distinta tra le altre: «I tuoi figli sono morti». È uscito di casa, correndo verso i figli. Lo hanno trattenuto: «C’erano tantissimi soldati stranieri, con armi pesanti. Mi dicevano di non avvicinarmi, ché mi avrebbero sparato. I miei figli erano a 10 metri di distanza, gli americani scattavano fotografie, io non potevo neanche accertarmi che fossero proprio i loro, quei corpi insanguinati». «Sono rimasti lì a lungo», aggiunge Nader Shah, il fratello maggiore del piccolo Sahebullah. «L’attacco c’è stato verso le 10 di sera, i corpi sono stati portati all’ospedale di Jalalabad soltanto verso l’una e 40 del mattino, quando hanno ordinato ai funzionari afghani – chiamati da noi – di prelevarli. Siamo riusciti a riprendere i corpi dei nostri ragazzi solo verso le 2.30 del mattino», dice Nader Shah. «Io stesso mi sono occupato di lavarli e di pulirli con il cotone».
I familiari di Asadullah, 14 anni
È all’ospedale che i familiari del piccolo Asadullah hanno saputo che era morto. Lo avevano affidato al cugino Amanullah, lo credevano al sicuro, felice. Li incontro in un quartiere periferico di Jalalabad. Nel cortile interno di casa mi accolgono in 17. A parlare con me sono soprattutto il padre di Asadullah, Dagarwal Khan Agha, e suo fratello maggiore, ‘Malim’ Said Agha. Sono i due uomini più anziani della famiglia. Dagarwal Khan Agha è ancora confuso. Ha gli occhi stanchi, le occhiaie profonde, il volto segnato da notti insonni e tormentate. Si guarda intorno smarrito, come se cercasse suo figlio Asadullah tra tutti questi ragazzi dai capelli scuri. Parla poco, e poco volentieri, Dagarwal Khan Agha, logista nel carcere di Jalalabad. Lo fa solo per ricordare Asadullah: «Frequentava l’undicesima classe alla Nazrat High School, qui a Jalalabad, aveva 14-15 anni. Gli piaceva studiare, era bravo, seguiva anche dei corsi di inglese e computer perché voleva ottenere una buona posizione in futuro. Per aiutare il suo paese». Venerdì 4 ottobre, come molte altre volte, Asadullah era andato a dormire dai cugini, «succedeva spesso, specie nei giorni di festa, il giovedì e il venerdì». Quella notte suo padre ha ricevuto una telefonata dai parenti di Saracha, verso le 2.30 del mattino. «Mi dicevano che stava male, che sarei dovuto andare all’ospedale. Quando sono arrivato lì, mi hanno avvertito che avrei trovato il corpo di mio figlio nella camera mortuaria», racconta Dagarwal Khan Agha, che ancora non ha capito cosa sia successo quella sera. «Nessuno è riuscito a spiegarmelo. Sono andato a Saracha, per cercare di capire come e perché mio figlio è morto. Ma è stato inutile».
Le giustificazioni dei comandi
Inutili gli sono apparse anche le parole dei portavoce Isaf-Nato. Già il giorno successivo all’attacco aereo, sabato 5 ottobre, dall’ufficio del presidente Karzai è partita una dichiarazione di condanna dell’operazione condotta dalle forze Isaf-Nato. Le autorità locali di Nangarhar parlavano infatti di vittime civili, di ragazzi innocenti. Il tenente colonnello Will Griffin, uno dei portavoce Isaf-Nato, intervistato dall’agenzia France Press replicava dicendo che non gli risultavano vittime civili. I dispacci ufficiali recitavano il solito mantra: attacco aereo di precisione, chirurgico, a danno di «insurgents». «Erano bambini, non sapevano niente di come si fa una guerra, non volevano farla. Erano a due passi da casa. Non si nascondevano. Non avevano fatto niente di male. Sono stati uccisi dei ragazzini innocenti», risponde stizzito lo zio di Asadullah, ‘Malim’ Said Agha. Il quale ricorda anche l’inchiesta condotta dalle autorità afghane, «da cui risulta che erano del tutto innocenti». Raggiunto al telefono, Ahmad Zia Abdulzai, portavoce del governatore della provincia di Nangarhar, conferma che «il vice-governatore di Nangarhar, Mohammed Hanif Gardiwal, ha mandato un suo uomo nell’area dell’incidente, insieme a un rappresentante del ministero dell’Interno su richiesta del presidente Karzai». La loro inchiesta ha dimostrato che «i cinque ragazzi uccisi non erano legati agli insorti».
L’«errore» riconosciuto. In privato
Secondo quanto racconta Qasim Hazrat Khan – il padre di Amanullah e Wasihullah -, i rappresentanti delle forze Isaf-Nato avrebbero riconosciuto l’errore già martedì 8 ottobre, ma solo in privato. «Uno dei responsabili dell’aeroporto militare, un americano, mi ha invitato a raggiungerlo nel suo ufficio, insieme a un traduttore. Lì, ha ammesso che i nostri figli erano stati uccisi per un errore». Qasim Hazrat Khan dice di aver fatto molte domande al «comandante americano» (di cui non sa dire il nome): «Una volta George Bush ha sostenuto che gli americani sono capaci di trovare perfino lo spillo di un ago sulla faccia della terra. Ma allora perché non distinguono le armi dei Talebani dai badì dei nostri ragazzi? Questo gli ho chiesto. E poi gli ho domandato perché non hanno provato a prenderli vivi. Perché ucciderli così?». Quando il «comandante americano» gli ha chiesto che cosa si aspettasse da lui, ora che i suoi figli erano morti, Qasim Hazrat Khan è stato netto: «Consegnateci i due piloti degli elicotteri che hanno ucciso i miei figli, mio nipote e gli altri ragazzi, gli ho risposto. Li tratteremo come prevede la nostra cultura, come insegna il Corano e prescrivono gli Hadith. Ve li riconsegneremo chiedendo scusa, come fanno gli americani con noi». Il comandante ha risposto che era impossibile, ma ha aggiunto che avrebbe potuto parlarne con dei funzionari più importanti di lui, in un altro incontro.
L’offerta di «compensazione»
Quell’incontro si è svolto mercoledì 9 ottobre, nel palazzo del governatore di Nangarhar. A partecipare erano in molti: per qualche minuto il governatore uscente Gul Agha Sherzai (dimessosi pochi giorni fa per partecipare alle elezioni presidenziali); il vice-governatore, Mohammed Hanif Gardiwal; diversi rappresentanti delle forze di sicurezza afghane, tra cui Fazil Ahmad Sherzad, responsabile per la sicurezza nella provincia di Nangarhar, il colonnello Sahib Khan, a capo della sicurezza nel distretto di Beshud, il generale Abdul Rahman, rappresentante del ministero degli Interni, venuto da Kabul. Oltre a loro, c’erano cinque “elders” (gli anziani a capo delle Jirga tribali, i consigli locali); i parenti di tutte e cinque i ragazzi uccisi; due alti rappresentanti delle forze Isaf-Nato, i cui nomi non sono noti. «Per la nostra famiglia ho partecipato io, in quanto membro più anziano», ricorda ‘Malim’ Said Agha. «Gli americani si sono scusati, hanno ammesso di aver ucciso degli innocenti, ci hanno promesso che ci avrebbero aiutato». Anche Qasim Hazrat Khan sostiene che i rappresentanti Isaf-Nato abbiamo ammesso l’errore, nell’incontro di mercoledì 9 ottobre: «Ci hanno chiesto scusa, davanti a tutti», ricorda. Ahmad Zia Abdulzai, portavoce del governatore di Nangarhar, al telefono conferma anche questo: «Gli americani hanno presentato le loro scuse davanti ai familiari delle vittime e davanti alle autorità di Nangarhar». Ho chiesto conferma anche al tenente colonnello Will Griffin, portavoce Isaf-Nato, responsabile Press Desk al quartier generale di Isaf-Public Affairs. La sua risposta è questa: «l’incidente a cui si riferisce è ancora sotto esame. Sarebbe inappropriato commentarlo ora».
I parenti delle vittime chiedono…
I parenti delle vittime concordano nel dire di aver ricevuto delle offerte alla fine dell’incontro, come «compensazione» per le perdite subite. «Gli americani ci hanno detto che ci avrebbero aiutato, ci avevano portato delle cose utili e altre ce ne avrebbero portate. No, non ci hanno offerto del denaro. Ma all’uscita c’erano delle automobili cariche di sacchi. Siamo stati tutti d’accordo nel rifiutare: siamo poveri ma non vendiamo il nostro stesso sangue», sostiene ‘Malim’ Said Agha. «Al governatore e al suo vice, che insistevano perché accettassimo qualcosa, abbiamo detto che avrebbero fatto meglio a costruire una madrasa, una moschea, un ospedale, qualcosa di utile per la gente di qui, dedicato alla memoria dei nostri martiri». L’unica richiesta dei parenti delle vittime, sostiene ‘Malim’ Said Agha, «è vedere i soldati colpevoli sotto processo. Molte volte gli americani, qui e altrove, hanno ucciso donne e bambini, innocenti, e poi chiesto scusa. É tempo che tutto questo finisca. É tempo che paghino per le loro azioni». «La nostra richiesta l’abbiamo già fatta», ribadisce Qasim Hazrat Khan mentre ci avviamo verso le tombe dei suoi figli, a Saracha. «Che ci consegnino i piloti, o che li consegnino a qualche tribunale afghano. Devono rispondere di quel che hanno fatto di fronte alla nostra legge, non a quella degli americani», mi dice convinto. Arriviamo alle tombe. Ci fermiamo. Qasim Hazrat Khan e Nader Shah pregano, le braccia allargate, le palme delle mani rivolte verso l’alto. «É qui che sabato mattina abbiamo tenuto la cerimonia funebre. Ogni mattina si presentano i nostri parenti, gli amici, perfino persone sconosciute per pregare per i nostri ragazzi». Il villaggio è già stato ribattezzato, spiega Nader Shah: «Ora si chiama Saracha Deh Shaidano Qalae»: Saracha, il villaggio dei martiri.
(Una versione più breve del reportage oggi in inglese su IPS)
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I morti sono 1.319 soltanto nei primi sei mesi 2013
In Afghanistan le vittime civili continuano a crescere. Dai dati del 6 settembre di Unama (missione Onu), solo nella prima metà del 2013 sarebbero 1319 le vittime e 2.533 i feriti. Il 9% sono attribuite all’esercito afghano, agli Stati Uniti, alle forze Isaf e ad altri gruppi pro-governativi. Il 12% a scontri a fuoco tra gruppi anti-governativi e governativi. Il resto delle vittime è attribuito a Talebani e altri gruppi di «insorti». I Talebani contestano come «inesatte e parziali» le stime Onu. Pochi giorni fa, con una lettera pubblica Amnesty International ha invocato una maggiore attenzione alla protezione dei civili: «Nella fase finale del trasferimento della sicurezza dalle forze internazionali a quelle afghane, è essenziale che il governo afghano, Isaf e gli Usa mettano in piedi tutto ciò di cui c’è bisogno per prevenire l’aumento delle vittime civili e darne conto», ha detto Horia Mosadiq, ricercatrice per Amnesty International Afghanistan.
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/10/saracha-la-strage-nato-dei-ragazzini/
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