Salvare l’azienda? Ci pensano i dipendenti
Si chiamano, obbedendo a una classificazione internazionale, workers buy out e hanno dato vita in Italia già a 36 casi di piccole aziende salvate e rimesse in carreggiata dai dipendenti. Sono imprese per lo più localizzate in Toscana ed Emilia ma anche in Veneto e Lazio, presenti un po’ in tutti i settori del manifatturiero e dei servizi e che per ripartire hanno adottato nella stragrande maggioranza dei casi lo strumento della cooperativa. Alcuni casi hanno avuto ripetutamente l’onore delle cronache come le Fonderie Zen di Padova e la milanese Ri-Maflow ma a censirli tutti per la prima volta è stato ilbureau.com, un sito di giornalisti, grafici e ricercatori coordinati da Valentina Parasecolo. Quando l’azienda — Srl o Spa che sia — fallisce, i dipendenti si riuniscono in cooperativa e la rilevano dalla liquidazione, utilizzando il Tfr e l’indennità di mobilità. In moltissimi casi ad aiutarli arriva Coopfond, il fondo mutualistico della Legacoop che versa a titolo di prestito un ammontare pari a quello versato dai lavoratori (al massimo stiamo parlando di un impegno pari a 800 mila euro). Successivamente si può attivare attorno alla nuova impresa una cintura di banche come Bper, Banca Etica o Banca Unipol che vegliano almeno sulla prima navigazione. I dipendenti fatta la scelta più difficile devono dare prova di maturità selezionando al loro interno le figure dirigenziali che avranno il compito di condurre l’azienda. Quasi sempre cambiano anche il nome: la Ottima di Scandiano (ceramiche) è diventata Greslab e la Maflow di Trezzano sul Naviglio è stata per l’appunto ribattezzata Ri-Maflow. Nel caso della Fenix Pharma in appoggio ai dipendenti è tornato un ex manager che aveva lavorato ai tempi in cui l’impresa era parte di una multinazionale americana.
Se l’obiettivo iniziale è quello di salvare con l’azienda ovviamente anche i posti di lavoro molte volte l’operazione è facilitata perché non tutti i dipendenti credono alla nuova impresa e alcuni si distaccano volontariamente. A differenza di esperienze più ideologiche che pure erano state fatte negli anni 70 e 80 nei nuovi workers buy out vigono i criteri guida della competenza e del pragmatismo. Non si fa a botte con il mercato bensì si cercano idee e soluzioni nuove anche per dimostrare che le vecchie proprietà erano inette. Una scelta valoriale c’è sempre ma le bandiere rosse no. Nel caso della Greslab la nuova gestione ha puntato molto sulla formazione e ha cambiato il prodotto da vendere investendo sul grès porcellanato. I dipendenti della Fenix Pharma hanno rilevato l’azienda dalla Warner Chilcott che voleva uscire dal mercato europeo ma hanno scommesso su prodotti nuovi nel segmento dell’osteoporosi comprando addirittura una licenza. In altri casi è bastato riprendere il vecchio business come per la Infissi design di Reggio Emilia che era andata in crisi per errori di gestione o per la Clab di Arezzo che fino ai primi anni del 2000 era tra le prima aziende in Europa nella produzione di box doccia.
Classificate le nuove realtà la domanda successiva diventa quanto siano attrezzate queste aziende per reggere l’urto di una crisi che non fa sconti e non guarda ai valori. La risposta che per ora si può dire riguarda la data di nascita di diverse aziende dei dipendenti: la rodigina Cup è nata nel 2008 così come la pistoiese Micronix, la reggiana Art Linig. Solo un anno di meno hanno la fiorentina Ipt e la pisana Italcom. Insomma nessuno può garantire il futuro ma, assicurano alla Coopfond, la selezione viene fatta all’inizio. Se non ci sono le condizioni non si parte nemmeno.
Dario Di Vico
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