by Sergio Segio | 13 Ottobre 2013 7:01
Fred Bergsten interviene verso la fine di una discussione sulla stabilizzazione dell’eurozona animata soprattutto dagli analisti dell’agenzia di «rating» Moody’s — Vinhas de Souza e Dietmar Hornung — che si svolge al Peterson Institute, il principale centro di studi internazionali di Washington, fondato proprio da Bergsten.
Gli esperti che fin lì hanno illustrato tavole abbastanza rassicuranti sulla fine dell’emergenza-deficit nell’Europa mediterranea riconoscono che, sì, il rischio che la stagnazione divenga una malattia cronica c’è tutto; i miglioramenti dal lato dei conti pubblici nel Sud dell’Europa (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) sono significativi e ormai strutturali. Ma l’aver evitato il peggio rischia di dare un falso senso di sicurezza: vengono meno il coraggio e la creatività necessari per trovare nuove strade verso la crescita. Come sempre i meeting annuali del Fondo monetario e della Banca Mondiale sono l’occasione per riunire governanti, banchieri centrali, finanzieri ed economisti di tutto il mondo, chiamati a discutere delle prospettive economiche nella sede di questi organismi multilaterali, ma soprattutto in una miriade di seminari che si svolgono nei tanti «think tank» della capitale. Quest’anno l’attenzione è ovviamente concentrata sullo scontro tutto politico sul tetto del debito pubblico Usa in corso a pochi isolati da qui nelle aule del Congresso.
Gli appelli al senso di responsabilità di repubblicani e democratici per non far precipitare l’America in un «default» che avrebbe conseguenze devastanti per tutto il mondo e la preoccupazione per un rallentamento delle economie dei Paesi emergenti, dalla Cina al Brasile, assai più pronunciato di quello che era stato diagnosticato a luglio, hanno ovviamente tolto dal cono dei riflettori l’Europa. Mohamed El-Erian, l’amministratore delegato di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, che ancora un anno fa parlava soprattutto delle difficoltà dell’eurozona, ora lancia allarmi diretti verso Capitol Hill: «Un Parlamento che gioca alla roulette russa», «rischio catastrofico» se non viene alzato subito il tetto del debito. E al meeting del Bretton Woods Committee avverte che, anche se si eviterà il peggio, questo «periodo di grande irrazionalità della politica americana» avrà conseguenze economiche pesanti. «Anche per i Paesi emergenti che, già in difficoltà di loro, ora assorbono — secondo El-Erian — anche l’instabilità prodotta dal Paese che emette la valuta di scambio del mondo», cioè il dollaro. Europa riabilitata anche perché il Fondo monetario, non più chiamato a effettuare massicci interventi d’emergenza per la Grecia, tira un sospiro di sollievo e può tornare a funzionare in modo normale. Ma il sollievo per la fine dell’allarme rosso non può essere scambiato per un ritorno alla normalità. La prospettiva di una lunga stagnazione spaventa: con un’economia che rimane ferma può essere garantita la tenuta delle banche? E che ne sarà della coesione sociale tra inevitabili tagli del «welfare» e disoccupazione che in molti Paesi è ormai al 25%? Sono le domande che si pongono economisti come Jeromin Zettelmeyer del Peterson o Hornung di Moody’s. Il quale condisce tutto con una raffica di tabelle che illustrano i progressi fatti e i pericoli che rimangono.
Con una nota di preoccupazione in più per l’Italia. Anche laddove i Paesi più sofferenti dell’Europa hanno realizzato progressi, il nostro Paese sembra avere problemi aggiuntivi. Il deficit pubblico è più basso che altrove, è vero, ma il risultato è frutto anche di un vistoso taglio degli investimenti pubblici. Mentre il costo del lavoro per unità di prodotto da noi sale più degli altri Pigs. Rispetto ai quali siamo in ritardo anche per quanto riguarda la ripresa delle esportazioni. Soluzioni? Al convegno di Banca Intesa, Martin Feldstein, decano degli economisti americani, propone cambiamenti radicali, a cominciare dalla svalutazione dell’euro che dovrebbe passare da 1,35 a 1,10 nel rapporto col dollaro. Ma non spiega come.
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