by Sergio Segio | 14 Ottobre 2013 13:47
Quella che segue è la storia di Sara, 28 anni, attrice ed insegnante di teatro. Una ragazza come tante altre, con una storia simile a migliaia di altre. E che denuncia quanto in Italia sia diventato impossibile per una donna esercitare un diritto che riguarda la sua salute: avere accesso ad una cura scomoda, e dolorosa (soprattutto per chi la richiede) come l’interruzione volontaria di gravidanza. Un’anomalia denunciata dall’Espresso più volte. Ecco la sua testimonianza.
Scopro di essere incinta nel marzo del 2011. Un errore di calcolo del ciclo. Parlo subito con la dottoressa Lisa Canitano[1] , che so essere un faro nella notte, perché non ho intenzione di portare avanti la gravidanza. Poiché però devo andare in scena di lì a poche settimane e non me la sento di affrontare l’intervento, le chiedo di illuminarmi sulla pillola.
Mi spiega che l’unico ospedale di Roma a dare la pillola abortiva è il San Camillo. Mi dice di andarci con le analisi, ma di non nutrire troppe speranze: per prendere la cura è necessario non aver superato le 7 settimane, ed essere ricoverate per 3/4 ore. E al San Camillo ci sono solo 3 letti al giorno.
Vado al San Camillo con il mio ragazzo, verso le 6 di mattina. L’entrata per le interruzioni di gravidanza non è quella di ginecologia, né di ostetricia: si scendono scale, si gira intorno all’ospedale. Quasi a dire: gli aborti? Nel seminterrato! Via, lontano dagli occhi!
Quando arrivo ci sono già circa 20 donne di tutte le età, di tutte le nazionalità. Il reparto è ancora chiuso. Ci mettiamo d’accordo tra noi per l’ordine di entrata. Quando aprono, le infermiere ci dicono senza mezzi termini: «È inutile che ve organizzate, entrate come viene!»
Il reparto è a dir poco fatiscente. I tubi a vista, incrostazioni e infiltrazioni ovunque. Comincio la trafila tra gli uffici. Vada allo sportello A, poi B, poi ritorni alla A. Mi manca la fotocopia del documento, quindi mi mandano via. Devo tornarci il giorno dopo.
Il giorno successivo, nonostante vi fossero altre 25/30 donne in fila, riesco ad entrare nella sala per la visita e l’ecografia trans-vaginale, che verificherà di quante settimane è l’embrione per decidere riguardo alla pillola. Riesco ad evitare il colloquio con lo psicologo: non mi occorre, ho deciso. Entriamo nella saletta in due. Io passo oltre una tenda, l’altra ragazza aspetta.
«No, nun te spoglià tutta, basta una gamba del pantalone e della mutanda. Siediti. Apri le gambe». Procede. Poi si blocca, con lo strumento inserito, e con me lì, con una gamba sì e una no, ad aspettare il responso. È una dottoressa, una donna.
«Carlo! Carlo, vie’ qua un po’».
Entra un altro dottore, a malapena mi guarda in faccia, sicuramente non mi saluta.
«Guarda un po’ st’embrione…de quant’è secondo te?»
«Boh…»
«Sarà di sei o di sette»
«Boh, direi quasi di sette».
L’hanno deciso così, con un boh.
«Allora, signorina, è quasi di sette, e sicuramente non troveremo un letto libero entro i tempi. Prenoti l’intervento nell’altro ufficio».
Mi tiro su i pantaloni incrociando lo sguardo dell’altra ragazza, mi pare fosse indiana. Mi ricordo che mi è venuta in mente la canzone di De André… “che aveva il tuo stesso identico umore…ma la divisa di un altro colore”. Mi dirigo verso l’altro ufficio un po’ stordita, frastornata dalla poca umanità, umiliata e triste. Sì, triste, perché quando una donna decide di abortire non è mai facile, non è mai scontato, non è mai una scelta fatta senza rimorso. Senza dolore.
All’altro ufficio mi fissano l’intervento per l’8 maggio. Al limite dei 3 mesi.
«Ma… sarò già di 2 mesi e oltre l’8 maggio…»
«Signorì, prima non c’è posto. Che le cambia?»
È superfluo spiegare che un mese in più – un mese in più in cui un bambino ti cresce dentro, in cui il tuo corpo cambia, in cui senti la vita nella tua vita – fa un’enorme differenza. Potrebbe anche farti cambiare idea, un mese in più. Potrebbe subdolamente darti il tempo di sentirti troppo in colpa. Aspettare un mese. Non ce la potevo fare. E in più l’8 maggio era giorno di spettacolo: uno spettacolo in allestimento da quasi un anno.
Chiedo alla dottoressa Canitano quale sia l’ospedale più vicino dopo il San Camillo. È a Pontedera, mi risponde. In provincia di Pisa.
Telefono all’ospedale toscano, e le voci mi sembrano più umane. Più calde. Mi fissano un appuntamento proprio allo scadere della settima settimana. Mi spiegano come funziona: una prima pillola, per bloccare l’embrione. La seconda, per espellerlo.
Partiamo di notte, la notte dopo Pasquetta. Arriviamo a Pontedera appena in tempo per l’appuntamento. Per strada non ho fatto altro che vomitare. Per arrivare in tempo prendiamo una multa di 270 euro. Meno 6 punti di patente.
All’accettazione controllano le mie analisi. Ma manca il gruppo sanguigno (al San Camillo non se n’erano accorti), che è necessario, visto che perderò molto sangue dopo la seconda somministrazione. Corriamo come pazzi a cercare un laboratorio privato. Pago altre analisi. Debolissima, dopo il vomito e il prelievo, ritorno in ospedale. Mi somministrano la prima pillola, che blocca l’evoluzione dell’embrione. La seconda dovrò prenderla dopo due giorni, e in quel momento verrò ricoverata.
«Mi raccomando», mi dice la dottoressa, una donna finalmente calma, e comprensiva, e rispettosa: «cerca di non vomitare».
Non vomito: sono stata brava. Sono rientrata a Roma, ho lavorato tutto il giorno lì, quello successivo a Napoli, e poi sono tornata a Pontedera, per la seconda pillola. Ed è andato tutto bene. A parte il dolore, la frustrazione, l’indignazione, la rabbia.
Nella capitale d’Italia solo un ospedale concede quella che è ormai riconosciuta come la misura abortiva più sicura e meno invasiva. Solo un ospedale, e a sole 3 persone al giorno. Solo un ospedale, e non lo fa vedere: queste pratiche sono degne dei sotterranei… non dei reparti puliti e colorati. Non è ammissibile che una donna al settimo mese, in ospedale per il controllo periodico, incroci una madre degenere, che a cuor leggero decide di far fuori suo figlio. Non sta bene.
Nascondiamole, queste “vergogne” della società. Rendiamo loro le cose più difficili, più dure, più umilianti. E anche se il nostro lavoro lo facciamo, veicoliamo il nostro disprezzo per altri canali, meno “verbali”.
E se non avessi avuto un uomo accanto, pronto ad accompagnarmi in Toscana?
Se non avessi avuto un’auto, o i soldi per il treno e la benzina?
Se fossi stata ignorante, o una straniera, che non conosce lingua e burocrazia?
Se non avessi avuto una famiglia aperta, pronta a sostenermi in ogni caso?
Se non avessi incontrato Lisa Canitano?
Questo era il racconto di Sara. Che ci tiene ad aggiungere che non è stato facile, fare quella scelta. Per niente. Che l’interruzione di gravidanza è stata dolorosa, prima, durante, e dopo: «A volte ho pensato che se avessi vissuto in un paese con gli asili nido all’università, con i sussidi per le giovani mamme, con qualche possibilità in più del lavoro precario, con più dignità per gli artisti e gli attori… boh, magari ora sarei mamma», conclude: «Non lo so. Sicuramente non ero pronta, allora. E sicuramente il pensiero di quel giorno mi rimarrà dentro per tutta la vita. E sarà un pensiero doloroso, e un senso di colpa insolvibile».
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