Primarie, Renzi va alla conquista del Nord

by Sergio Segio | 15 Ottobre 2013 5:45

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VERONA — Matteo Renzi-imprenditore, Matteo Renzi-Zelig. Arriva all’ex magazzino delle ferrovie di Verona accolto da un lungo applauso dei quasi duemila industriali riuniti per l’assemblea della Confindustria locale. E lui la guest-star. Per la prima volta parla a un pubblico non amico dopo aver lanciato la sua campagna per la conquista del Pd e poi – va da sé – di Palazzo Chigi. Scelse l’Emilia per la sua sfida a Pier Luigi Bersani, ora, dopo una toccata e fuga in giornata a Trento e Bolzano, il Veneto, industriale e ancora forzaleghista, per battere Gianni Cuperlo con il quale si sono schierati 165 parlamentari democrat. Il sindaco di Firenze stravince per evidente superiorità il duello a distanza con il sindaco della città scaligera, il leghista Flavio Tosi, pronto a entrare nelle primarie del centrodestra se mai ci saranno, che gioca in casa e anche per questo, probabilmente, la sala lo segue distratta quando difende il federalismo che non c’è.
Qualcuno se ne va mentre ancora parla. Altri non ascoltano nemmeno le conclusioni del presidente confindustriale, Giorgio Squinzi.
Tutto già sentito. Non ci sono i potenti locali, il governatore Luca Zaia, il sottosegretario all’Economia Alberto Giorgetti che pure di Verona è natìo. Anche questi sono segnali.
D’altra parte la novità era Matteo Renzi, figlio di piccoli imprenditori messi in crisi prima dell’euro da un mutuo contratto in Ecu. Renzi, il rottamatore. E qui, in una delle aree più industrializzate del Paese, con il Pil pro capite più alto dell’intera Penisola, è venuto per conquistare il consenso.
Preferibilmente da sinistra, ma non a tutti i costi. Perché di classicamente di sinistra il candidato Renzi, sia chiaro, non dice nulla. Verona non è il nord-est arrabbiato dell’antipolitica. C’è più sobrietà. Qui c’è una domanda di nuova politica. Renzi e Tosi, per l’appunto. Il presidente
degli industriali veronesi, Giulio Pedrollo, sostiene che si deve andare «oltre». E il leit motivi dell’assemblea: andare oltre la crisi. Renzi lo intuisce. E sceglie di parlare lo stesso linguaggio degli industriali. Diventa uno di loro e strappa applausi a ripetizione. Il rottamatore, allora, non rottama il fragile capitalismo italiano, se non per un accenno agli intrecci perversi con il sistema delle banche che taglia i finanziamenti alle piccole imprese e apre i rubinetti «ai soliti noti» con la «complicità della politica». «Storie che gridano vendetta », dice. Eppure non pronuncia la parola Alitalia e nemmeno quella delle Poste. Ma, d’altra parte, dall’affaire che dovrebbe salvare il vettore tricolore sono rimasti, non a caso, debitamente alla larga anche i confindustriali perché lì è coinvolta direttamente la classe imprenditoriale.
Dunque il nemico è la pubblica amministrazione, una burocrazia che blocca le opere, i progetti, le idee, i cambiamenti. Una giustizia che non funziona, che produce incertezza, che scaccia gli investimenti esteri. Un costo dell’energia che è superiore del 30 per cento di quello sostenuto dai nostri concorrenti europei. «C’è un sistema – dice Renzi – che va smantellato. E parlo dei consiglieri di Stato, dei capi di gabinetto. E poi gli organi monocratici, i sovraintendenti, la tecnocrazia, la conferenza Stato-Regioni. O voltiamo pagina o rimarremo sempre così. Rannicchiati su noi stessi». E poi c’è un sistema fiscale «allucinante», e «l’assoluta follia» di una legislazione sul lavoro. «Solo da noi ci sono dodici riviste di giuslavoristi. Così lavorano gli avvocati. Ripete che nel Jobs act che ha in testa basterebbero 60-70 articoli traducibili in inglese. Idea “rubata” questa volta proprio da un giuslavorista, Pietro Ichino. Applausi quando ribadisce le sue idee sull’amnistia e l’indulto. Applausi per l’imprenditore Matteo Renzi.

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