by Sergio Segio | 29 Ottobre 2013 16:36
“I momenti più brutti sono quelli in cui ti accorgi che stai perdendo l’autosufficienza e non puoi fare niente per impedirlo. Si comincia dalle mani: giorno dopo giorno, la capacità di mangiare e di lavarti viene meno, fino a scomparire del tutto. Poi smetti di camminare e ti ritrovi all’improvviso seduto su una carrozzina o steso su un letto. Immobile e con la prospettiva di rimanerci inchiodato per quel poco di vita che la Sla ha deciso di concedere ancora: un lustro se va bene, pochi mesi nei casi più gravi”.
Quella di Stefano Marangone, 48 anni, ex calciatore dilettante di Rivignano (Udine), è la testimonianza di tutti gli uomini e le donne che il destino ha imprigionato in una camicia di forza. Un male senza vie d’uscita. Una patologia – la Sclerosi laterale amiotrofica – dall’origine oscura, ma dal decorso acclarato e inesorabile. Soprattutto, spietato: mentre la malattia avanza, costringendo il paziente ad assistere inerme alla progressiva paralisi delle proprie funzioni vitali, la testa resta integra e funzionante.
L’email che Stefano invia all’Espresso dal suo computer ne è la prova. Per rispondere alle domande, detta con lo sguardo il proprio pensiero al comunicatore oculare che gli consente di mantenere contatti diretti con il mondo, dentro e fuori la sua abitazione friulana. E’ grazie a questa incrollabile forza che Stefano e altri 4.500 malati di Sla sono tornati in piazza, a Roma. Per la nona volta in tre anni chiedono al Governo rispetto e risorse. Pronti a tutto, anche a morire (come è accaduto al medico Raffaele Pennacchio[1] il 27 ottobre scorso) pur di vedere riconosciuto il proprio diritto alla vita. Una vita da disabili, certo, ma non per questo meno degna di essere vissuta con decoro.
Le risorse che lo Stato distribuisce alle famiglie dei malati di Sla sono a dir poco risibili. Non bastano a coprire le spese e neppure ad assicurare standard di vita dignitosi. E, come se non bastasse, rispondono a criteri di distribuzione del tutto arbitrari: va meglio a chi abita nelle regioni del Nord e peggio a chi si ritrova amministrato da una Regione del Sud.
A rappresentare familiari e pazienti è il Comitato 16 novembre[2] , in campo ormai da tre anni (il primo sit-in davanti al ministero dell’Economia risale al 16 novembre 2010) per ottenere il riconoscimento all’assistenza domiciliare vigile, ad alta specialità e spalmata sulle 24 ore. Un tipo di assistenza che soltanto personale adeguatamente addestrato e qualificato può garantire. Il comitato chiede anche che sia data continuità al “bonus” di 100 milioni di euro stanziato una tantum nel 2010, attraverso nuovi finanziamenti e il ripristino del fondo della non autosufficienza che giace bloccato dal 2011.
«Con il Comitato 16 novembre – spiega Stefano -, abbiamo voluto prendere in mano il nostro destino e sostenere un movimento civile e umano, senza deleghe in bianco. Non rappresentiamo soltanto i malati di Sla, ma anche tutte le disabilità gravissime. Purtroppo, però, fino a ora abbiamo collezionato soltanto promesse. Da soli non riusciamo a sostenere le spese di un’assistenza continuativa e, ormai da anni, chiediamo invano assegni di cura omogenei in tutta Italia».
L’esempio di casa Marangone vale come modello per migliaia di altri casi. Le due assistenti che si alternano nell’arco della giornata costano 3 mila euro al mese: la pensione di Stefano come ex impiegato è di 1.400 euro, lo stipendio di sua moglie Paola di 1.300 euro. Il contributo che la Regione Friuli Venezia Giulia gli eroga per l’intero anno ammonta a 18 mila euro.
Il che, paragonato ad altre parti d’Italia, non è neanche male. Fa eccezione la Sardegna, considerata il modello cui adeguarsi: lì il contributo è di 49 mila euro e a breve, grazie al progetto “Restare a casa”, lieviterà fino a 60 mila. Non tutti hanno la stessa capacità di resistere che ha Stefano. «Molti malati – racconta – preferiscono lasciarsi morire, pur di non pesare sui propri cari». È Paola, che del Comitato è una delle dirigenti, a sintetizzare i vantaggi del “Sistema Sardegna”.
«Il meccanismo è semplicissimo: ricoverare un malato di Sla in Rsa o in Terapia intensiva costa circa 90 mila euro l’anno, lasciarlo a casa un terzo di meno. Con i soldi risparmiati, quindi, si possono assumere almeno due persone, entrambe di supporto al caregiver, ossia al coniuge, figlio o genitore, che in prima persona si prende cura del proprio caro». Nella delegazione partita per la capitale, Stefano non c’era: troppo avanzato lo stadio della sua malattia. Ma dal Friuli ha partecipato alla protesta con un digiuno di tre giorni. E ha pianto per la morte di Raffaele Pennacchio. «Hanno ucciso il mio amico», scrive, ricordando il medico di Caserta affetto da Sla, morto dopo due giorni di presidio davanti al ministero dell’Economia.
Diritti civili a parte, il problema impone la massima attenzione anche per il notevole tasso di espansione che la Sla ha registrato nell’ultimo decennio: dai 3 casi ogni 100 mila abitanti del 2002, si è passati ai 6-8 di quest’anno. L’incidenza maggiore – come ha dimostrato anche un’inchiesta del procuratore torinese Raffaele Guariniello – continua a essere quella che conduce ai campi di calcio.
Stefano rientra proprio in questa statistica. «Sono 11 anni che mi chiedo perchè sia capitato proprio a me – scrive – Il calcio era la mia passione e so che non può avermi tradito. Si sta cercando una correlazione con i pesticidi o con i traumi da gioco. Il doping – continua – c’entra poco: nel ciclismo, per esempio, l’utilizzo di sostanze dopanti è molto più diffuso. La conclusione alla quale sono giunto, per quel che mi riguarda, è che sia stata colpa dell’inquinamento di Chernobyl: a quel tempo facevo il militare e ricordo che ci davano da mangiare verdure contaminate».
La battaglia dei coniugi Marangone comincia nell’aprile del 2002. Di punto in bianco, Stefano si scopre malato. «Prima della Sla ero un uomo molto attivo – racconta – I primi sintomi erano comparsi mentre giocavo ancora a calcio, ma pensavo fosse la vecchiaia: avevo 35 anni. Conducevo una vita serena e avevo un buon carattere, sempre positivo. Amavo stare in compagnia, mi piaceva la buona tavola ed ero soddisfatto del mio lavoro. L’unico rammarico era che Paola e io non potevamo avere figli».
L’esordio della malattia era stato di tipo bulbare: quello che porta alla morte nel giro di 18-36 mesi. «Ho capito subito – continua – che la Sla avrebbe distrutto in breve tempo il mio corpo. Nel giro di pochi mesi ho iniziato ad avere bisogno di tutto. E’ stato durissimo. Sono sempre stato molto riservato ed essere costretto a mettere il mio corpo alla mercè di chiunque è stata una violenza che ho faticato a sopportare. Ora ci sono abituato: la mia vita dipende in tutto e per tutto dagli altri». Nel maggio del 2005, una crisi respiratoria porta la situazione a un punto di non ritorno. L’ora sembra arrivata. Ma, a differenza di tanti altri malati, Stefano decide di non mollare. Accetta di sottoporsi alla tracheotomia. Anche se questo significa rimanere paralizzato dalla testa ai piedi, nutrirsi attraverso un tubo e respirare con un ventilatore meccanico.
«Ho scelto di vivere attaccato a una macchina perché credevo che uno Stato civile potesse e dovesse garantire ai malati gravissimi una vita dignitosa». I fatti stanno dimostrando che non è così. Che neppure la dignità dei malati è un principio scontato. Per quanto possa sembrare assurdo, la vita di Stefano è scandita al minuto. «Le giornate volano via velocissime – dice – e non mi annoio mai».
Si parte alle 8, con le medicazioni e il lavaggio. Poi arrivano le assistenti domiciliari garantite gratuitamente dal Comune per la cura dell’igiene. Nel tempo libero, Stefano guarda la televisione e lavora al computer. La nutrizione gli viene infusa ogni due ore e mezza. «Il mio sogno è naturalmente guarire. Se si realizzasse, la prima cosa che farei sarebbe immergermi nel mare. Da sette anni faccio la doccia a letto e l’idea di sentire l’acqua che avvolge il mio corpo mi dà una sensazione di benessere totale».
Dopo la malattia i coniugi Marangone si sono trasferiti dal secondo piano della precedente abitazione al piano terra di una villetta con giardino dove Stefano riesce a godere dell’aria aperta per mezz’ora al giorno. La vita sociale, per lui e Paola, si è quasi annullata: molti degli amici di un tempo si sono allontanati e per loro, adesso, le feste comandate sono i periodi più tristi dell’anno.
Il “faro”, in casa, era e resta Paola. «Anche quando gli altri ti abbandonano e la politica, di destra o di sinistra, continua a rimanere muta ai tuoi appelli, sai di avere ancora al tuo fianco l’uomo che ami. Certo, spesso a sostenermi è anche la forza della disperazione. Ma se non sono serena io, non lo è neppure lui. Per ricaricarmi mi basta andare la mattina a scuola e incontrare i miei alunni. Mi sono trasformata e inventata infermiera. Ho imparato le manovre per evitare che soffocasse, ho passato le notti in bianco per girarlo da una parte all’altra del letto e ho sofferto insieme a lui la solitudine e i pregiudizi. Eppure, se tornassi indietro, rifarei tutto. Mi mancano le sue carezze. Poi, però, lo guardo e i suoi occhi valgono più di mille baci».
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