Modello tedesco solo per ricchi

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Due le bandierine rosse piantate sul terreno della trattativa: il salario minimo orario di 8,50 euro e l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie. In cambio di una esplicita rinuncia ad aumentare le tasse sui redditi più elevati e i patrimoni, maldigerita dalla sinistra del partito. La regolamentazione dei mercati finanziari è un fioretto cui da tempo fanno ricorso, quando il clima mediatico lo suggerisce, falchi e colombe di mezza Europa, salvo alzare le mani di fronte agli insormontabili “ostacoli globali” che la impediscono o la riducono al lumicino. Il salario minimo ha qualche consistenza in più in un paese che è cresciuto sul supersfruttamento del lavoro intermittente e precario. Ma già i futuri partner di governo e gli imprenditori avvertono che non dovrà mettere a rischio posti di lavoro, ovverosia porre un serio argine al dumpimg salariale e alla flessibilità. Anche la prima bandierina rossa rischia dunque di stingere.
L’ammirato “modello tedesco” ha prodotto non diversamente dalle politiche liberiste condotte in altri paesi, una fortissima polarizzazione della ricchezza e un abbassamento del livello di consumi mediano (che non è la media tra i più ricchi e i più poveri, ma la condizione di vita reale della maggioranza). Della competitività acquisita nel mondo, ma anche nell’eurozona, nonché del raggiungimento di una potenza finanziaria che si autoalimenta strangolando le prospettive di crescita di altri paesi, non è che una piccola parte della popolazione tedesca a trarre vantaggio. A questa tendenza il programmino socialdemocratico oppone placebo e blandi correttivi.
Ma veniamo all’Europa. La Spd propone, (che trovata!), di “rafforzare la crescita”. Ma come? “I paesi dell’Unione devono dotarsi di una efficace strategia di crescita combinata con una politica finanziaria di stabilità”. La solita ricetta che combina fumose prospettive con concrete politiche recessive i cui esiti disastrosi (la riproduzione e l’aggravamento degli squilibri nel vecchio continente) sono sotto gli occhi di tutti. Dalla grande coalizione il sud d’Europa non ha nulla di buono da aspettarsi.
Una forza socialdemocratica, sia pure la più moderata, dovrebbe chiarire ai lavoratori e ai disoccupati tedeschi che non sono i governi del sud, succubi di poveracci desiderosi di “vivere al di sopra dei propri mezzi”, a “mettere le mani nelle loro tasche”, ma i tassi di profitto dei capitali tedeschi e internazionali e i dividendi della rendita finanziaria (di cui i “risparmiatori” devono ritenersi parte). Dovrebbe, ma non può, essendo stata protagonista di quella compressione dei salari e delle prestazioni sociali (la famosa agenda 2010 del cancelliere Schroeder) che ha drogato la competitività della Repubblica federale, mettendo le mani nelle tasche dei lavoratori e anticipando tutti gli altri nello sfruttamento del lavoro e del non lavoro. Dovrebbe pretendere una politica di “aggiustamento” non nei paesi in deficit, ma nel proprio, dove ricchezza e “virtù” potrebbero infine tradursi in aumenti salariali e spesa sociale, tali da riflettersi positivamente sull’andamento delle economie europee più in difficoltà oltre che sul benessere dei tedeschi. Dovrebbe, ma non può, per il fatto di avere interiorizzato oltre misura le dottrine liberiste, e per la mancanza di coraggio nel contrastare quel nazionalismo economico che sempre più si diffonde nell’opinione pubblica tedesca.
Le “larghe intese” o “grandi coalizioni”, la forma fintamente rissosa in cui si esprime oggi più adeguatamente il pensiero unico europeo, vivono di grotteschi paradossi. Nell’attuale bundestag, Spd e Cdu/Csu formerebbero una maggioranza talmente vasta che le opposizioni (Verdi e Linke) non raggiungerebbero i numeri sufficienti per ottenere gli organismi di controllo e garanzia spettanti alle forze di opposizione. Che il problema si risolva per via regolamentare o costituzionale, il fatto stesso che si ponga, la dice lunga sullo stato della democrazia in Germania.


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