by Sergio Segio | 15 Ottobre 2013 7:43
«È nostra comune convinzione che l’uso del nome “Allah” non sia parte integrante della fede e della pratica del cristianesimo… Non troviamo alcuna ragione per la quale il convenuto è così risoluto nell’utilizzare il nome “Allah” nella sua pubblicazione settimanale. Tale uso, se consentito, inevitabilmente può causare confusione all’interno della comunità». È uno stralcio della sentenza che ieri mattina alla Corte d’appello di Putrajaya, in Malaysia, tre giudici hanno firmato sotto la guida del magistrato Mohamed Apandi Bin Haji Ali.
La sentenza riguarda il ricorso presentato dal governo contro un verdetto del 2009 che aveva dato ragione al settimanale cattolico Herald che menzionava Dio col termine di Allah. Adesso non potrà più farlo per non ingenerare confusione, come hanno scritto i giudici. A suo tempo era stato il settimanale a fare ricorso sostenendo il proprio diritto a usare la parola “Allah”, cosa che invece una disposizione governativa vietava, ritenendola appannaggio esclusivo dei musulmani. Andava bene il termine malese “Tuan” (signore), non Allah.
Ma la disputa, che a tutta prima sembrerebbe più di carattere semantico e più cosa da accademici che da legulei, rischia adesso – come già dopo la sentenza del 2009 – di infiammare gli animi soprattutto di chi ritiene di avere il copyright della parola Dio nelle sue multiformi declinazioni.
I cristiani della Malaysia hanno però preferito gettare acqua sul fuoco. La comunità conta non pochi sostenitori in un Paese a maggioranza musulmana da sempre in difficile equilibrio per la convivenza di tre comunità molto diverse (malesi, cinesi e indiani), retaggio del passato coloniale. Hanno accolto la notizia con disappunto e la ritengono un passo indietro nel cammino della coesistenza tra diverse fedi, ma se all’agenzia Fides il direttore dell’Herald, padre Lawrence Andrew, dice che la sentenza è «ingiusta e viola la libertà religiosa e di espressione sanciti nella Costituzione», alla stessa agenzia l’arcivescovo di Kuala Lumpur, monsignor Murphy Pakiam – che pure considera il verdetto «prevedibile» in un caso «fin troppo politicizzato» – spiega: «I vescovi hanno puntualizzato che nelle chiese e nelle liturgie si continuerà a usare il temine “Allah”. La sentenza riguarda solo l’Herald e non la nostra Alkitab, storica Bibbia in lingua malese. L’incognita – nota comprensibilmente il vescovo – è rappresentata dai gruppi radicali islamici, che potrebbero dare un’interpretazione restrittiva alla sentenza». Il riferimento ovvio è a quanto successe nel 2010 (il parere favorevole all’Herald è del dicembre 2009), quando il verdetto scatenò attacchi a luoghi di culto con molotov, sassaiole, lanci di vernice.
Mentre fuori dal tribunale si felicitavano i militanti di Perkasa (gruppo nazionalista di difesa dell’identità malese con forti venature di razzismo anche religioso), i cristiani rendevano note le loro ragioni. Il termine Allah – sostengono – si trova nella Bibbia tradotta in malese da almeno 400 anni e nei lemmi di un antico Dizionario Latino-Malay, edito nel 1631 dalla congregazione vaticana di «Propaganda Fide». Prove che finiranno nuovamente in tribunale perché l’Herald ricorrerà a una corte superiore.
Dei circa 28 milioni di abitanti della Malaysia (per il 60% musulmani) i cristiani sono oltre 2,6 milioni. Molti tra loro sono autoctoni e da sempre, probabilmente mischiando il prestito linguistico arabo con l’evangelizzazione cristiana, usano il termine Allah per rivolgersi a Dio. Che per altro, come dicono i monoteisti, è uno e uno soltanto.
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