L’onnipotenza della tecnologia Usa che mette a rischio gli equilibri

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«Five Eyes» è l’accordo di non spionaggio reciproco tra cinque Paesi anglofoni siglato da Stati Uniti e Gran Bretagna alla fine della Seconda guerra mondiale e successivamente esteso a Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Chi obietta davanti a qualche funzionario americano che, spiando anche gli alleati
in modo capillare, gli Stati Uniti hanno esagerato, si sente rispondere che questa è stata la prassi sempre conosciuta e tacitamente accettata da tutti, nella comunità occidentale: Paesi alleati nel fare muro contro l’Unione Sovietica (finché è esistita), nella lotta al terrorismo, negli obiettivi comuni della Nato. Per il resto concorrenti, rivali. Anni fa, interrogato sulle ragioni dell’aggressività dello spionaggio francese negli Usa, Pierre Marion, allora capo dei servizi segreti del governo di Parigi, spiegò senza peli sulla lingua: «In campo economico siamo concorrenti, non alleati». Quindi è naturale che ci sia una maggior presenza in America, dove ci sono più imprese e tecnologia.
Esiste una vasta pubblicistica in proposito. Risale addirittura a un rapporto del Gao, l’ufficio federale di controllo del bilancio, che già nel 1960 denunciava come la Francia (indicata come «Paese B» per evitare incidenti diplomatici) fosse abituata a rubare con le sue spie le tecnologie industriali e militari che non riusciva a sviluppare in casa a causa dei limiti del suo mercato interno. Ma ci sono anche documenti recenti di WikiLeaks sull’aggressività dello spionaggio di Parigi nei confronti dei «cugini» tedeschi coi quali ora Hollande vorrebbe prendere iniziative comuni. Berry Smutny, capo di un’azienda satellitare tedesca, nel 2009 definì la Francia «l’impero del male dei furti di tecnologia: ha danneggiato la Germania più di quanto abbiano fatto Russia e Cina».
Ma adesso le rivelazioni sulle intercettazioni di milioni di telefonate in Europa e su uno spionaggio arrivato fino ai cellulari personali dei capi di governi più vicini a Washington, rappresentano un salto di qualità. Certo, c’è un po’ di ipocrisia nelle proteste di governi che sapevano, ma ora sono costretti a ostentare indignazione davanti ai loro cittadini infuriati. Gli Stati Uniti, però, dovrebbero comprendere che lo stillicidio di rivelazioni di Snowden, oltre a minare l’immagine dell’America come Paese della trasparenza, rischiano, se non si corre ai ripari, di far crescere anche tra gli amici il risentimento nei confronti di quella che viene sempre più percepita come un’eccessiva invadenza alimentata dal primato tecnologico.
Ieri il New York Times si chiedeva che senso abbia rischiare il rapporto con l’alleato tedesco per spiare il cellulare della Merkel. Preoccupazioni che, purtroppo, negli Usa hanno in pochi: per i vecchi conservatori l’«eccezionalismo» dell’America, Paese-faro del mondo, giustifica tutto; per i giovani progressisti cresciuti nel mondo digitale, «privacy» e anche «segreti di Stato» sono parole con poco senso.
L’Amministrazione Obama quel segreto
lo difende, eccome, ma la cultura dell’onnipotenza della tecnologia è arrivata anche qui: si invocano alleanze contro i pericoli di una guerra cibernetica, ma quando si spia la regola è che le potenzialità tecniche vanno sfruttate fino in fondo. Chi lo sa fare, si metta al riparo. Come hanno fatto i tecnici della Casa Bianca schermando il Blackberry di Obama.
E la rabbia tedesca? Potrebbe rientrare con l’ingresso di Berlino e Parigi nel club spionistico anglosassone. La Germania l’aveva chiesto in passato mentre la Cia voleva aprire alla Francia filoamericana di Sarkozy. Al dunque non se ne fece nulla per paura di richieste analoghe da parte degli altri alleati. Ora è possibile un ripensamento.


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