Lo spirito della Costituzione
Enon è vero quello che i nostri capi di governo vanno dicendo: che saremmo in mano alla trojka di Bruxelles, se svanisse il bene molto equivoco di una stabilità politica che dipende dal condannato Berlusconi.
Quel condizionale – saremmo – va sostituito con l’indicativo. L’Italia non rischia commissariamenti se cade il governo Letta, così come non li rischiava quando caddero Berlusconi o Monti, perché da tempo siamo sotto tutela. I nostri imperatori sono oltre che nudi, finti. La stabilità tanto vantata, da salvare ad alti costi, è in realtà stasi sanguigna, imperio di un’oligarchia che fa capo non a un re ma a un reggente.
Nel vocabolario Treccani, reggente è colui che «esercita le funzioni della Corona in sostituzione del re, in via straordinaria e in determinati casi (incertezza su chi ha diritto al regno, incapacità giuridica o impedimento fisico del monarca)». Tanto più perniciosa una stabilità che dovesse scaturire dalla spaccatura, clamorosa ma forse provvisoria, del Pdl. Anche abbandonato dai suoi, Berlusconi non cesserà di influenzarli. Surrettiziamente, continuerà a esser lui la garanzia della nostra solvenza finanziaria e della nostra onestà: soprattutto se in extremis voterà la fiducia.
Monti d’altronde lo annunciò, il 16 ottobre 2011 sul Corriere, un mese prima di divenire Premier: «Siamo già oggetto di “protettorato”: tedesco-francese e della Banca centrale europea». Il protettorato ha assunto fattezze più civili, ma protettorato resta. Inutile continuare a dire che siamo sull’orlo del commissariamento. Ci siamo dentro, come Atene, Lisbona, Dublino, Madrid. A forza di fissare l’abisso, l’abisso guarda dentro di noi e ci inghiotte. Se le cose non stessero così, non ci allarmeremmo: «Chi sarà capace di parlare con Draghi, dopo Monti e Letta?» In altre parole: chi amministrerà, conscio di non essere che un reggente?
Questo non vuol dire che i giochi siano fatti per sempre. Che subordinazione e reggenza siano fatali leggi della natura. Vuol dire però che tutto va mutato, a Roma e in Europa: i vocabolari mistificatori che usiamo, le politiche che ne discendono, il nostro sguardo sulle istituzioni, le Costituzioni. Dice lo scrittore austriaco Robert Menasse, dei monarchi europei: «Uno Stato nazionale non può più risolvere problemi da solo, la sovranità è già ceduta ». Tanto più in Italia, le cui anomalie hanno dilatato la subalternità oltre misura. Non solo l’anomalia di Berlusconi. È anomalia anche governare con un partito estraneo alla cultura giuridica. È anomalia anche un Parlamento che con bradipica lentezza espelle (se espelle) un senatore condannato per frode fiscale, quando la legge ordina di farlo «immediatamente».
Senza fare chiarezza impossibile affrontare l’instabilità vera: il disfarsi delle democrazie, e in primis della nostra. Lo dice chi proprio per questo s’aggrappa alla Costituzione, e il 12 ottobre a Roma scenderà in piazza per difenderla. Se trema la democrazia, per forza tremerà la sua Carta fondativa. Cosa significa oggi avere governi di reggenza, ipocritamente sovrani? Significa che «il monarca tradizionale è in una condizione di incapacità giuridica, di impedimento fisico». Lo scettro è in mano a potenze esterne, e il reggente lo sa ma non lo dice.
Gli effetti già li vediamo, li viviamo. La nostra Repubblica si è fatta presidenziale, sotto Napolitano, e la metamorfosi non è stata decisa dal popolo sovrano: è avvenuta come se l’avesse dettata, motu proprio, la natura. L’antagonismo politico piano piano è stato bandito, bollato come populista secondo la già collaudata, emergenziale logica degli opposti estremismi.
È populista Berlusconi, che entrò in politica per restaurare un’oligarchia corrotta dopo Mani Pulite. Sono definiti specularmente populisti Syriza in Grecia o i movimenti cittadini vicini a Grillo, che dell’era Mani Pulite sono figli.
Ne consegue l’impotenza crescente delle costituzioni nazionali, quasi ovunque in Europa. Il popolo di cittadini non può far valere bisogni e paure, quando è amministrato (non governato) da oligarchie che pretendono regalità che non hanno più. Quando un rapporto della JP Morgan (28 maggio ’13) definisce infide le costituzioni nate dalla Resistenza, caratterizzate come sono «da esecutivi deboli verso i parlamenti; dai diritti dei lavoratori; dall’eccessiva licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo». Nella storia francese, il periodo in cui Filippo d’Orleans amministrò al posto di Luigi XV si chiama reggenza ed è sinonimo di governi brevi, dediti a sanare bilanci. Orleanismo è predominio delle coterie: cioè delle consorterie, o cricche.
Perché, visto che siamo sotto tutela, battersi perché la Costituzione incompiuta si compia? Perché è il suo spirito che conta: i suoi articoli sono la confutazione vivente degli imperatori apparenti come dei commissariamenti fatali. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, e ciascuno di essi deve contare ai vari livelli del potere: comunale, nazionale, ed europeo. La democrazia è oggi postnazionale: le elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come quelle nazionali, ma governi e partiti fanno lo gnorri.
Non è nemmeno scritto, nelle costituzioni, che una sola politica sia buona, e le vie diverse illegittime o populiste. La Carta sta lì a dirci le forme
della democrazia che vogliamo, ma anche i suoi contenuti: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; il lavoro, l’istruzione e la stampa libera come fondamenti; la tutela del patrimonio naturale e artistico; la separazione dei poteri; la protezione dei deboli, degli svantaggiati, di chi dissente.
Nelle crisi le Carte sono preziose perché aprono possibilità, non congelano i rapporti di potere esistenti. Consentono politiche alternative, non organizzano solo alternanze: né da noi né in Europa. Muoiono, se niente si muove. Oggi sono i nazionalisti a reclamare il nuovo (in Germania o in Austria, dove le destre estreme, antieuropee, hanno raccolto domenica il 30,8 % dei voti) ma perché la sinistra classica ha smesso da tempo di incarnare l’alternativa.
Prima del voto tedesco, su Spiegel online, il giornalista Wolfgang Munchau ha messo in relazione il declino socialdemocratico con il rifiuto di un’alternativa, nazionale e europea, all’austerità della Merkel. Risale agli anni ’90 la rottura con Keynes, quando Schröder concepì la terza via: che non era affatto terza ma – come per Blair, per il Pd – adesione al mercato senza freni naufragato nel 2007-2008. Erano ancora keynesiani Brandt e il suo ministro del Tesoro Karl Schiller, nel ’69. Lo fu anche Schmidt, negli anni ’70. Solo l’estrema sinistra tedesca (la Linke) resta keynesiana.
Un’alternativa è possibile, se non se ne ha paura. Alexis Tsipras, capo di Syriza in Grecia, ha chiesto il 20 settembre al Forum Kreisky di Vienna un’Europa non frantumata dall’austerità, e una lotta «contro l’alleanza fra cleptocrazia ellenica e élite europee». Simile la lotta in Italia: il
fronte costituzionalista di Rodotà e Landini, Zagrebelsky e Settis, dice questo. Quanto a Berlino, una maggioranza parlamentare alternativa alla Merkel esiste già (socialdemocratici, verdi, Linke), ma solo sulla carta. Da otto anni i socialdemocratici rinunciano a gettar ponti verso la Linke, a liberarla dal passato comunista.
Da noi l’alternativa potrebbe nascere se il Pd non proponesse solo reggenti, e scoprisse che per vent’anni la Carta è stata l’arcinemico della destra berlusconiana. Se dicendo il vero sul commissariamento, separasse la sovranità dei cittadini da quella degli Stati, e si battesse per una Costituzione che sarà compiuta quando i suoi princìpi s’estenderanno all’Europa.
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