by Sergio Segio | 20 Ottobre 2013 16:03
MILANO — Riposa in pace fra i cittadini “noti e benemeriti” di Milano. Accanto all’urna di Enzo Tortora, sopra quella dell’attrice Lina Volonghi, sotto quella di Lorenzo Bigatti in arte Renzo Palmer. C’è anche lei: Lea Garofalo, bruciata dai boss.
Con rispetto la città di Milano saluta poco dopo mezzogiorno la donna calabrese che ha sfidato la ’ndrangheta, la sua famiglia, la tribù dove volevano costringerla a vivere e che poi l’ha uccisa senza pietà perché non era ubbidiente alla legge dei Cosco, la legge degli infami.
Cimitero monumentale, ossario D, i loculi dei milanesi illustri. Pittori. Ambasciatori. Ballerine della Scala. Partigiani. Poeti. Cantanti lirici. Scrittori. Eroi della battaglia di Custoza. Quattro uomini, cinque donne e quattro agenti del servizio di protezione del ministero dell’Interno circondano Denise, la figlia di Lea Garofalo, testimone di giustizia come sua madre che non c’è più. Don Luigi Ciotti l’accarezza, l’abbraccia. E chiede a tutti: «Ciascuno di voi dica in questo momento una parola, solo una parola». Denise è davanti ai resti della mamma. Sussurra il primo: «Calabria». Un altro: «Grazie». Un altro: «Scusaci ». Un’altra: «Forza». Un’altra: «Ti voglio bene». Lei, la piccola che ha visto morire la madre e che sarebbe dovuta morire anche lei per mano del padre, si aggrappa a don Luigi e poi con un soffio di voce: «Io dico vita, vita».
È finito con queste parole di una ragazzina smarrita eppure tanto felice di esistere com’era e com’è ancora — e che è già diventata il simbolo di una piccola grande rivolta italiana — il funerale laico e solenne che la capitale lombarda ha dedicato a una vittima di mafia. A lei e a questa figlia che è sopravvissuta alle atrocità dei Cosco di Petilia Policastro, intruglio fra malavita e macelleria, vendicatori che in un giorno di novembre del 2009 hanno dato fuoco a Lea Garofalo solo perché non si considerava più di loro proprietà. È finito in una grigia giornata milanese l’ultimo atto di una tragedia cominciata quattro anni fa e che doveva restare avvolta nel silenzio, sepolta in una Milano che avrebbe dimenticato Lea e Denise — questo immaginavano i Cosco — perché erano niente, non contavano niente, erano solo due disperate di un Sud lontano (apparentemente lontano) che potevano schiacciare quando e come volevano. I Cosco, vigliacchi, oggi si sono trovati contro una Milano che li ha svergognati davanti a tutti. E ha riservato a quella giovane madre un posto vicino ai suoi grandi.
Piazza Beccaria, un carro funebre attraversa la folla. Il sindaco Pisapia, don Ciotti, amministratori comunali e provinciali sono lì fra gonfaloni e alte uniformi. Il carro funebre è vuoto, punta verso un cimitero lontano per depistare le telecamere. Qualche minuto dopo un’auto civile parte per il Monumetale, con la teca di zinco e dentro i resti di Lea Garofalo. Ancora sventolano nella piazza a due passi dal Duomo le bandiere di Libera e ancora riecheggiano le parole di sua figlia Denise — da un “luogo segreto”, una stanza del Comune — con la voce tremante: «Per me è un giorno triste, ma la forza me l’hai data tu… se è successo tutto questo è solo per il mio bene e non smetterò mai di ringraziarti. Ciao». Ciao a Lea e ciao a tutti quelli che sono qui in piazza Beccaria.
Fiori rossi e gialli, di tutti i colori spediti da Vittoria, Sicilia. Canti sacri e Vinicio Capossela, Franco Battiato, Vasco Rossi, Rino Gaetano, tutti quelli che piacevano a lei. Le note dell’ Ave Maria di Fabrizio De Andrè, lacrime, commozione, il sindaco Pisapia che parla della sua Milano come “città antimafia”, l’avvocato Enza Rando (che per conto di Libera ha amorevolmente seguito Denise e tutti i processi contro gli assassini di sua madre) che legge una lettera di Lea “mai spedita” al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «Sono una mamma disperata, allo stremo delle sue forze. Oggi mi trovo con mia figlia lontana da tutto e da tutti. Sono sola. Ho perso tutto. Sapevo a cosa andavo incontro… vorrei che lei rispondesse alle decine di persone che si trovano nelle mie stesse condizioni. La prego ci dia un segnale di speranza. Abbiamo bisogno di aiuto…».
Qualche minuto prima un’altra voce e un altro foglio, brani del diario della donna uccisa con il fuoco, poche parole datate 19 agosto del 1992: «Ho scritto tutto quello che ho sentito, che mi dicono. Non ho scritto quello che penso. Della mia vita non gliene frega niente a nessuno e sono sola. So solo che la mia vita non è mai stata niente, sono nata nella sfortuna e morirò nella sfortuna. Ma ora ho una ragione per andare avanti: si chiama Denise…lei avrà tutto quello che io non ho mai avuto nella vita».
In mezzo alla piazza e in mezzo alla folla c’è Luigi Ciotti, commosso, tirato. Dice: «Lea è ancora viva, Lea che è un martire della verità, un testimone della verità». E dice: «Non basta parlare di verità, dobbiamo cercarla». Ancora: «Lea, siamo a noi a chiedere la tua benedizione, benedici Milano, benedici Denise che noi non lasceremo mai sola».
Il popolo di Milano è davanti alla bara di Lea. Portata in spalla dal sindaco, da Nando dalla Chiesa, da don Ciotti, da Mario Calabresi, il direttore de La Stampa che in questi anni ha portato calore a Denise. Si spalancano i cancelli del cimitero Monumentale di Milano. La teca di zinco scompare, murata. A pochi centimetri, c’è il cippo di marmo con il capitello corinzio che ha voluto come tomba Enzo Tortora. Insieme ai suoi occhiali. E a una copia della Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni.
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