Lampedusa, l’archivio di sommersi e salvati “Ecco le nostre storie, non dimenticateci”

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ROMA — C’è Zerit, biologo marino eritreo di 28 anni, che in mare ha perso suo fratello e c’è Costantino, che con la sua barchetta “Nika” ha salvato 11 disperati e c’è pure Vito, che ne ha tirati su finché la sua barca ha iniziato a ondeggiare e ora i profughi lo chiamano papà. Ci sono i sopravvissuti e i soccorritori, gli africani e gli isolani, uniti dal ricordo di quel nero 3 ottobre, quando quasi quattrocento persone, tra uomini, donne e bambini, sono rimaste inghiottite dalle acque di Lampedusa. E ci sono le loro lettere, il loro pizzini digitali affidati ora alla rete, per dire: «Non provate mai a dimenticarci».
Zerit G. scrive al popolo italiano: «Ho 28 anni e non sono un eroe, voglio che conosciate la mia storia e voglio sapere perché non sono stato invitato al funerale di mio fratello». A raccogliere la sua voce è “Sciabica”, parola di origine araba che significa rete da pesca: una rete gettata tra le storie di chi è rimasto sull’isola, ora che i riflettori si stanno spegnendo.
“Sciabica” è una piattaforma digitale, popolata di racconti e foto: un sorta di archivio della memoria, ideato da Fabrica (centro di ricerca sulla comunicazione, fondato nel 1994 e aperto a giovani creativi di tutto il mondo) e affidato a Internet.
«Sono stati gli italiani ad aver costruito la mia città, Elabaned, in Eritrea — scrive Zerit sul suo pizzino — sono il primo migrante della mia famiglia e sono un biologo marino. Volevo passare la vita a parlare coi pesci». Dopo essersi laureato in scienze marine, Zerit decide di raggiungere suo fratello Samuel in Sudan. Con lui prosegue per la Libia e poi da Tripoli fa il grande salto: sfida il mare per raggiungere le coste italiane. Samuel muore tra le acque il 3 ottobre a un’ora di nuoto dalla costa, Zerit tocca la terraferma a Lampedusa. Il suo ultimo dolore? Non aver potuto piangere i funerali del fratello: «Quando ho capito che non potevamo andare ad Agrigento e che ci sarebbero stati degli sconosciuti a gettare un fiore su bare
di legno pregiato, mentre i corpi erano rimasti incastrati nel legno marcio del barcone — scrive Zerit sul suo pizzino raccolto da Michela Iaccarino di Fabrica — ho capito che lui stava morendo un’altra volta. Quando l’ora di ricordare la tragedia è arrivata, sono andato verso il mare. E al mare ho chiesto di Samuel, aspettando che almeno la sua anima quel giorno tornasse indietro».
Vito Fiorino ha 64 anni. È nato a Bari ed è cresciuto a Milano. A Lampedusa è venuto la prima volta in vacanza nel 1990. Il 3 ottobre 2013 ha salvato 47 persone: «Se le Nazioni sono davvero Unite come dicono – scrive – devono fare qualcosa adesso. Io ho fatto quello che andava fatto. Lo rifarei in ogni momento, in modo ancora più forte. Ogni giorno i 47 ragazzi mi vengono a trovare. Arrivano dove c’è il bar di mia figlia e mi dicono “ciao, papà”».
Costantino Baratta è nato a Trani nel 1957. Appena si è innamorato di sua moglie, si è innamorato anche della sua isola ed è rimasto a Lampedusa. Il 3 ottobre ha salvato 11 migranti: «Anche quando non ce la faremo più, quando su quest’isola non rimarrà più niente, noi continueremo ad aiutare questa gente. Ma se ci date un’altra medaglia, sarò io il primo a rifiutarla».
Poi c’è don Mussie Zerai, un prete cristiano nato in Eritrea. In Italia ha fondato l’associazione Habeshia e aiuta i profughi che riescono a raggiungere l’Europa. Mussie indirizza il suo pizzino alle autorità italiane: «Smettetela di dare cittadinanza ai morti, cominciate a dare diritti ai vivi». Il suo messaggio su “Sciabica” non morirà: Fabrica è alla ricerca di un’associazione culturale lampedusana a cui affidare il suo incubatore digitale, affinché nessuno possa un giorno dire «non ricordo».


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