Lampedusa, i profughi rifiutano di farsi prendere le impronte digitali

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LAMPEDUSA – Due mani disegnate col pennarello e sbarrate da una croce. Sopra, le scritte: una piccola in arabo, una più grande in un italiano appena sgrammaticato: “No inpronte”. Alì, 23 anni, studente di Economia di Damasco, regge un cartello che gli copre anche il viso. Mnieer, ingegnere 30enne, tiene in mano un foglio di quaderno, con la stessa scritta. Sono sbarcati a Lampedusa nei giorni scorsi fuggendo dalla Siria in guerra, e sognano di rifarsi una vita nel Nord Europa: Germania, Svezia o Norvegia. “In Italia non vogliamo restare”, spiega in inglese Alì: “C’è pochissimo lavoro, non ti danno aiuti, non ti danno la casa: non possiamo rimanere qui, senza prospettive”.

Il regolamento di Dublino, che disciplina l’accoglienza dei rifugiati sul territorio dell’Unione Europea, impone che la domanda venga esaminata dal primo paese nel quale i migranti vengono registrati. Così, per evitare di rimanere “incastrati” in Italia, Alì, Mnieer, e insieme a loro molti altri, non accettano di lasciare le proprie impronte digitali. Il “boicottaggio” coinvolge anche giovani eritrei, inclusi alcuni dei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre. Poco più di due mesi fa, il 21 luglio, decine di eritrei alloggiati nel Centro di accoglienza di Lampedusa avevano manifestato sfilando nel centro del paese per rivendicare la possibilità di non lasciare le impronte.

Sherouan, 27 anni, curdo siriano, afferma di essere stato spintonato quando ha rifiutato di lasciare le impronte. Mariam, di Damasco, riferisce i racconti di una parente dal Centro di accoglienza di Pozzallo, in provincia di Ragusa, dove sono alloggiati molti dei siriani sbarcati nel corso dell’estate sulle coste della Sicilia orientale: “Lì a chi non lascia le impronte requisiscono il cellulare”, asserisce Mariam.

“Non farsi identificare con le impronte è un diritto di cui i migranti possono avvalersi”, conferma la dottoressa Alessandra Diodati, che assieme ad altri operatori della Croce rossa lavora nel Centro di accoglienza. “Chi riesce a dimostrare di avere solidi legami familiari – aggiunge – può comunque ottenere di essere accolto in un altro paese europeo, ma si tratta di una procedura lunga. E in questo modo, nazioni come la Svezia di fatto scelgono quali persone accogliere e quali no”.

In Italia, chi presenta domanda di protezione umanitaria ha diritto di essere ospitato nei cosiddetti Cara, centri di accoglienza per i richiedenti asilo. Ma in attesa di vedere esaminata la propria richiesta trascorrono mesi di incertezza e di ozio, senza poter lavorare e in condizioni non sempre adeguate.

Intanto, al Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa, il sovraffollamento è preoccupante. Molti, incluse famiglie con bambini, dormono su materassi all’aperto, sotto gli alberi, nonostante le piogge che nelle ultime notti hanno sferzato l’isola. “Qui le persone dovrebbero restare al massimo due o tre giorni e poi essere trasferite altrove”, afferma Tommaso Della Longa, portavoce della Croce rossa: “Non è possibile che una struttura con una capienza di 250 persone continui a sfiorare e a volte superare il migliaio di presenze”.

Le condizioni igieniche sono pessime, e qualcuno ironizza sul cibo (“Everyday maccaroni”, protesta sorridendo Khaled). Ma per i giovani scampati al naufragio l’importante è essere ancora vivi: “Va tutto bene, c’è da mangiare, c’è il letto”, dice Michael, seduto su un gradino in via Roma. È facile uscire dal centro, attraverso i tanti buchi nella recinzione, e molti ne approfittano per una passeggiata. Un eritreo di 24 anni, di Asmara, passa i pomeriggi sotto la statua della Madonna che affaccia sul porto, mentre prosegue il recupero dei corpi delle vittime del naufragio. Anche lui rifiuta di lasciare le impronte, il suo sogno è il Canada: “Non importa se è lontano – sorride: –dopo quello che ho passato, per me non c’è più niente di impossibile”. (Giulia Bondi)

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