L’AGENDA POLITICA CHE SERVE AL PAESE
Dobbiamo prendere atto che si è corso un azzardo politico, e ora ne stiamo pagando il prezzo, prevedibile e elevatissimo. Era nato un governo fin dall’inizio prigioniero delle smanie di un autocrate, come ormai riconoscono i suoi stessi seguaci. E le costrizioni imposte all’azione del Governo sono state rese ben evidenti da due semplici fatti. Lo stallo infinito intorno alla questione dell’Imu, imposto dalla volontà di soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svanivano quelle del Pd. L’impossibilità di affrontare il nodo della riforma della legge elettorale, malgrado le ripetute sollecitazioni del Presidente della Repubblica, che era giunto fino a farne una delle ragioni costitutive del nuovo Governo e della maggioranza delle larghe intese.
Tutto questo è avvenuto in un contesto ben più insidioso, fatto di fibrillazioni continue che hanno privato la politica di ogni orizzonte temporale e di senso. Fin dal primo momento, il Governo Letta è stato oggetto di continue, insistenti sollecitazioni da parte dell’infedele alleato di governo, che rattrappiva le “larghe” intese in una quasi quotidiana negoziazione, che imponeva le questioni prioritarie, fissava paletti, con una pressione che assumeva spesso le sembianze del ricatto. Mentre l’orizzonte apparente era quello di diciotto mesi, del cosiddetto “cronoprogramma”, quello reale si rivelava sempre più angusto. Settimane prima, giornate poi, fino a giungere alle indegne vicende dell’ultima fase, quando ci si è ridotti ad interrogarsi di ora in ora sulla possibile sopravvivenza del governo. Di fronte ad una situazione così drammatica il Pd ha mostrato una gran debolezza, considerando come unico e supremo bene il solo fatto che il Governo riuscisse a durare.
In questo modo la politica è stata privata di ogni significato, ridotta a pura schermaglia, ha rivelato una trama sempre più misera, intessuta di illegittimi interessi personali, con aggressioni a chiunque, persino nella maggioranza o nello stesso Governo, cercava di introdurre qualche barlume di ragione, di aprire qualche spiraglio verso una più larga comprensione delle questioni reali. Già pesantemente insidiata da una sostanziale sottomissione all’economia e ai suoi diktat, la politica è stata così immersa in un presente senza prospettive, nell’affanno di emergenze di cui non si coglieva più il significato.
Questo dissolversi della politica ha finito con l’incarnare un estremo paradosso. Una politica governativa fragile fino all’inesistenza si è aggrappata ad una immaginaria grande politica costituzionale. Poiché questa ha bisogno di tempi più lunghi di quelli scanditi dagli affanni del giorno per giorno, si è pensato che in tal modo il Governo avesse contratto una sorta di assicurazione sulla vita. E invece si è di fronte ad una stanca coazione a ripetere, al tentativo di un intero ceto politico ormai in confusione di scaricare tutte le responsabilità della situazione presente sulla Costituzione. Un diversivo divenuto pericoloso, poiché una seria politica costituzionale può nascere solo da una adeguata riflessione della politica su se stessa. Mancando questa riflessione, divenuta la politica ufficiale sempre più regolamento di conti all’interno di oligarchie, era inevitabile che la riforma costituzionale assumesse un marcato carattere strumentale, rivelasse la sua natura congiunturale. Da qui la manipolazione delle regole di garanzia indicate dalla Costituzione, da qui la tentazione d’ogni regime debole di cercare una via d’uscita in un accentramento del potere.
A questo punto una conclusione sembrerebbe obbligata. Un minimo di moralità politica, direi quasi un comune senso del pudore, imporrebbe di non nominare più, in un momento così delicato, i cambiamenti costituzionali, per i quali mancano le condizioni essenziali: un comune sentire dei soggetti politici che a ciò s’impegnano e una loro piena legittimazione. È del tutto palese, invece, che le forze politiche sono divise su tutto, sono prive di vera cultura costituzionale, sono oggetto di una ripulsa da parte dei cittadini, impietosamente confermata da tutte le rilevazioni demoscopiche, che collocano al di sotto del cinque per cento la fiducia nei confronti di partiti e Parlamento.
Se davvero si volesse cominciare la ricostruzione di un circuito di fiducia tra istituzioni e cittadini, restituendo a questi ultimi una vera “agibilità politica”, la riforma elettorale dovrebbe uscire dalle ipocrisie e dalle convenienze, e divenire la vera emergenza da affrontare subito. Per fare questo passo, indispensabile per riportare il nostro sistema politico alla legalità costituzionale, servono senza dubbio coraggio e fantasia politica. Virtù perdute, in un paese che coltiva con delizia lo “stato di necessità”, come alibi permanente per non fronteggiare in modo adeguato i veri problemi e per sottrarsi all’obbligo di restituire alla politica visione e orizzonti larghi.
La politica non è morta, ma rischia di essere coltivata fuori dai luoghi istituzionali. Da molte parti vengono proposte precise per costruire un’agenda politica che colga i dati di realtà e guardi al futuro. Ricordo solo alcune parole. Lavoro, considerato fondamento della democrazia come vuole l’articolo 1 della Costituzione, al quale guardare anche nella prospettiva di una riforma complessiva del sistema delle tutele, considerando le proposte tutt’altro che eversive sull’introduzione di forme di reddito garantito. Europa, come spazio della politica e non della sola economia, dunque non amputato della sua Carta dei diritti fondamentali. Beni comuni, che evocano le questioni concretissime del regime giuridico della rete telefonica, di servizi idrici rispettosi dei risultati dei referendum del 2011, della conoscenza in rete di cui non può impadronirsi l’Agicom. Diritti civili, che tanto hanno giovato ad Angela Merkel, con aperture sulle quali dovrebbero meditare tanti politici che si dicono cattolici. Iniziativa legislativa popolare, come canale effettivo di comunicazione tra cittadini e istituzioni. Eguaglianza soprattutto, di fronte a 14 milioni di poveri, quasi il 22% della popolazione. Utopie concrete, da coltivare, se si vogliono evitare i rischi di un passaggio dalla disaffezione per la politica alla rottura della coesione sociale.
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