LA VERSIONE DI JOSHUA. L’ANTENATO DI BARNEY
Guardatemi adesso, pensava Joshua. La gamba destra non era più appesa mediante pulegge al soffitto di una stanza d’ospedale, ma era ancora ingessata: alla sua età le fratture multiple faticano a saldarsi. Niente più cannule che fuoriuscivano dalle narici, che lo nutrivano per endovena o gli drenavano i polmoni. Un gorgogliare di sangue a ogni respiro. Continuava a rimuginare su tutto il sangue che gli avevano pompato in corpo. Sei litri di sangue altrui. Allagava i suoi sogni, insozzava le sue ore di veglia. Con ogni probabilità, una parte di quel sangue l’ospedale se l’era procurata comprandolo da ubriaconi senza un soldo o drogati. Finirò sicuramente col beccarmi l’epatite, pensò. Se non peggio.
Sebbene le costole rotte stessero guarendo, o così gli assicuravano, tossire rimaneva un supplizio. Il gesso che imprigionava il braccio destro gliel’avrebbero tolto soltanto martedì, ma poteva già muovere le dita della mano. C’erano posti che riusciva a grattarsi da solo. E, se gli mettevano una rivista sul leggio, era in grado di voltare le pagine. Peccato che «Time», pur non essendo più un obbrobrio (come all’epoca in cui fustigava Adlai Stevenson e si spellava le mani per il senatore Joseph Mc-Carthy, sia benedetta la sua memo-ria), non fosse granché divertente, adesso che era diventato così perbene. Tanti nobili discorsi di sinistra, e non raccontava più quelle belle guerre ingiuste che almeno ti permettevano di tifare per gli oppressi.
Al diavolo gli oppressi – canaglie, tutti quanti. Per lui, khmer rossi e vietnamiti erano due oggetti misteriosi, intercambiabili, e poco gli importava chi fosse a vincere o a perdere. E nemmeno, a pensarci, quale Fronte di liberazione nazionale avesse la meglio in Botswana, o come diavolo si chiamava questa settimana quel pezzo del borioso continente africano. Una buona notizia: Bob Hope, lesse, ha annunciato che vuole realizzare uno special televisivo in Cina. Dopo la Lunga Marcia, seguita ad anni di privazioni, il Grande Balzo in Avanti. La William Morris Agency, Swifty Lazar, Sue Mengers, o chiunque altro rappresentasse Hope, sarebbero presto arrivati nel Regno di Mezzo per intavolare negoziati con Deng Xiaoping, offrendo una variopinta cornucopia ai non più refrattari musi gialli. In mancanza di Virginia Mayo, c’era da aspettarsi Miss America che ballava musica disco fuori da una grotta a Yenan con indosso un vestito griffato Halston.
Chissà, magari l’anno prossimo ci toccherà vedere Sonny e Cher che, in diretta da Auschwitz, cantano The Way We Were davanti alle porte aperte di un forno crematorio rimesso a nuovo.
Il cranio rasato di Joshua, le cui fratture si erano ormai saldate, era stato liberato dalle bende. Il letto non era più circondato da medici pieni di premure, sulle facce un’espressione grave, che parlottavano tra loro a bassa voce aggrottando la fronte china sui diagrammi anche quando gli chiedevano come si chiamava, il giorno della settimana o l’età dei suoi figli. Alex, diciotto anni; Susy, quattordici; Teddy, dieci.
Non sarò più scemo di quanto fossi prima, pensò. Magra soddisfazione. Ma almeno aveva chiuso con la padella. Se lo si aiutava ad alzarsi, e si muoveva lentamente, un passetto dopo l’altro, adesso era in grado di andare in bagno da solo.
Solo il martedì precedente il letto a rotelle di Joshua era stato infilato alla chetichella in un ascensore, e lui era stato caricato su un’ambulanza in attesa davanti a una porta sul retro del Montreal General Hospital. Dopo aver attraversato il Champlain Bridge, avevano imboccato la ben nota Route 10, l’autoroute des cantons de l’est, diretti al cottage sul lago Memphremagog. Pura beatitudine. Precariamente sistemato in posizione seduta, adesso Joshua vedeva il lago da una finestra, e non più una sfilza di inaspriti settuagenari che si trascinavano in un corridoio d’ospedale per assicurarsi un’efficiente motilità intestinale, come se questo bastasse a scongiurare un carcinoma. Il ghiaccio si era spaccato da appena una settimana, ma vele gonfiate dal vento sfrecciavano già nella baia. C’erano anche degli uomini su piccoli battelli ancorati al largo – perlopiù autentici pescatori che facevano la posta ai persici, ma qualcuno armato di teleobiettivo faceva invece la posta a Joshua Shapiro, Esquire. C’era persino chi era venuto da Fleet Street per aspettarlo allo Hatley Inn, pretendendo salmone affumicato a colazione – salvo poi lamentarne a gran voce l’eccessiva fibrosità –, e inzeppando il fondo delle valigie con gli asciugamani dell’albergo. Gli uccelli erano tornati. Nelle prime ore del mattino, quando nel cottage erano ancora tutti a letto, lui guardava l’unica strolaga superstite del lago roteare sull’acqua e tuffarsi per acciuffare un mirasole o uno sperlano. Una volta vide un cardellino mattiniero volteggiare tra le betulle in fiore. La sera comparivano i pettirossi, che si cibavano di ragni d’acqua. Non poteva vedere Susy e Teddy sul molo sotto il cottage – malgrado si sforzasse, restavano fuori dal suo campo visivo –, ma gli arrivavano gli strilli di Susy tutte le volte che Teddy prendeva un persico, e li benediceva.
Stava migliorando. Non c’era nessun dubbio. Una mattina, con l’aiuto di Reuben, riuscì addirittura ad arrampicarsi maldestramente fino al suo studio in cima alle scale, combattendo lo stordimento e cercando rassicurazione negli oggetti che gli erano così familiari. Fotografie incorniciate di pugili, di giocatori di hockey e di baseball. Cassius Clay, come si chiamava allora, che guardava con un’espressione di trionfo Sonny Liston al tappeto. Al Weill seduto accanto a Rocky Marciano con la testa fasciata e gli occhi gonfi dopo il match con Walcott. Maurice «il Razzo» Richard, con le sue folte sopracciglia, in piena volata. Koufax al lancio. E, al posto d’onore, l’oggetto più amato. Il manifesto.
© 1980 prod. Inc.© 2013 Adelphi Edizioni s.p.a. Milano / Agenzia Santachiara Traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti
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Anticipiamo l’inizio di Joshua allora e oggi l’inedito di Mordecai Richler in uscita da Adelphi (trad. di Giovanni Ferrara degli Uberti pagg. 466 euro 20)
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