La trappola delle statistiche (da decifrare)

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Siamo arrivati all’incredibile quota 40 e quindi urge ragionare con freddezza sui numeri della disoccupazione giovanile per evitare evidenti errori di comunicazione. In base ai dati resi noti ieri dall’Istat da oggi tutti, politici/imprenditori/sindacalisti, si sentiranno autorizzati a sentenziare che il 40% dei giovani italiani tra i 15 e i 24 anni è disoccupato. Fortunatamente non è così e con un po’ di pazienza cercheremo di capire il perché. I giovani italiani tra i 15 e i 24 anni sono in tutto 6 milioni e poco più, di questi ben 4 milioni e 357 mila sono considerati inattivi. La stragrande maggioranza è composta da studenti e il resto (circa 700 mila) sono una fetta dei famosi «Neet», i ragazzi che non studiano e non cercano lavoro. Questi 4 milioni e più di giovani però restano fuori dal conteggio dell’Istat e quindi non concorrono a determinare quel risultato-monstre del 40% di disoccupati.
Per essere ancora più precisi e forse tranchant possiamo dire che se fosse vero che il 40% dei giovani è disoccupato si arriverebbe in valori assoluti a 3 milioni di persone! E invece il numero assoluto di ragazzi con età 15-24 che si può considerare statisticamente disoccupato è di 667 mila, molto meno. In termini percentuali vuole dire 11,1 se rapportato alla popolazione giovanile, ma diventa 40 se forzatamente lo si calcola sul campione di 1 milione e 662 mila persone considerate «attive» ovvero occupate (circa un milione), o disoccupate in cerca di impiego (per l’appunto 667 mila).
Ma perché è tanto difficile orientarsi nelle statistiche dell’occupazione? Perché non si taglia la testa al toro e si comunica correttamente il dato dell’11,1% di disoccupati giovani e non quel 40% o giù di lì che ci fa accapponare la pelle ogni volta? La causa principale sta nei parametri comuni di Eurostat: usiamo un criterio di rilevazione standardizzato a livello di Ue, altrimenti si perderebbe la possibilità di effettuare comparazioni tra i singoli Paesi. L’obbedienza statistica europea la paghiamo in termini di cattiva comunicazione (e di peggioramento del mood del Paese già tendente al nero) al punto che l’Istat sotto la presidenza di Enrico Giovannini (diventato poi ministro del Lavoro) ha preso tutte le volte a organizzare appositi briefing per i giornalisti tesi a distinguere puntigliosamente campioni e risultati in percentuale. Una tela di Penelope che viene ogni volta scucita in nome di una semplificazione fatalmente abborracciata. «I dati statistici specie se attinenti all’occupazione sono una materia delicata – dice Giuliano Cazzola (Scelta civica) e non vanno usati come arma di lotta politica. Si finisce per rappresentare una condizione del Belpaese talmente grave da scoraggiare chi volesse raggiungere le nostre coste emigrando persino dal Burkina Faso. Il lavoro è sicuramente un’emergenza ma è bene delineare una rappresentazione corretta dei problemi». Aggiunge l’ex ministro Tiziano Treu: «La comunicazione finisce per peggiorare le cose. Crea un effetto valanga sui dati della disoccupazione che non giova a nessuno. Non si possono considerare disoccupati i giovani che sono in età scolare e assimilarli a chi lavora o comunque cerca un impiego». La querelle statistica, continua Treu, rende ancora più difficile la spiegazione dei provvedimenti all’opinione pubblica. Se si confondono i perimetri di applicazione tutto diventa più difficile e caotico.
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P.S. Entro la data di ieri le Regioni avrebbero dovuto trasmettere al ministero le loro proposte per semplificare e modellare le norme sull’apprendistato. Non l’hanno fatto e ancora una volta si è dimostrato quanto sia inconcludente il federalismo parolaio.


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