La rivolta e l’intransigenza che l’avvicinano a Calvino

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Non possiamo sottrarci a Camus quando scrive: «Il senso dell’assurdo, alla svolta di una qualunque via, può cogliere qualunque uomo». Il suo fascino è in una geniale, apparente contraddizione perché, come ha scritto Montale, al solito ineguagliabilmente lucido, «il suo nichilismo non esclude la speranza, non dispensa l’uomo dal difficile compito di vivere e di morire con dignità». Solo un grande riesce a spiegare un altro grande con tale semplicità.
Albert Camus è dunque lo scrittore francese, l’intellettuale nel senso più pieno del termine, più coccolato, oltre che ammirato, dai lettori italiani. È anche una moda che resiste come raramente resistono le mode, è una bandiera. È l’espressione d’un gauchismo libero e ribelle di cui le nostre generazioni, le generazioni con i capelli bianchi, sentono la nostalgia. E i giovani, quanti fra loro hanno il suo nome sulle labbra? Credo che pensino a lui come a un altro scrittore, stavolta italiano, di statura diversa e meno manifestamente contagiosa. Intendo riferirmi a Italo Calvino. L’autore delle bellissime Lezioni americane come l’autore dello Straniero sono manifestamente quelli, fra i maestri del Novecento, che più piacciono alle nuove generazioni, alle loro impazienze di rottamatori del tempo perduto (quello di Pasolini, gettonatissimo, è un caso diverso). Che senso ha accostare Camus e Calvino? Non hanno niente in comune. O invece sì, qualcosa in comune ce l’hanno? Qualcosa che li riguarda come uomini, figli fino in fondo all’anima del loro tempo? Vediamo. Per entrambi la morte è arrivata prematuramente, a passi di lupo, consegnandoli al rimpianto della storia prima che le ombre dei ripensamenti crudeli, d’un uso e abuso della propria figura pubblica e della propria intelligenza, potesse guastarne l’immagine. Ecco che cosa hanno in comune, un modo di affrontare la vita impegnato e severo, che rispecchia una intransigenza all’occorrenza sfumata di moralismo. L’intransigenza delle generazioni che ereditarono dai padri, dai fratelli maggiori il maquis, la Resistenza, un mondo libero, ma da ricostruire dopo la barbarie nazifascista. Proprio in quella luce Camus e Calvino avrebbero fatto i conti anche con lo stalinismo, con un comunismo che aveva tradito i suoi ideali. I giovani sentono, leggendoli, che dietro le loro pagine c’è una svolta decisiva compiuta dalla letteratura del secolo breve. Un mutamento di prospettiva che li convince.
A quei giovani che vogliano saperne di più intorno all’autore dell’Uomo in rivolta suggeriamo, oltre a quella esaustiva di Olivier Todd edita anni fa da Bompiani, una più recente biografia. Si intitola Albert Camus. Una vita per la verità , l’ha scritta il rumeno Virgil Tanase e l’ha pubblicata adesso l’editore Castelvecchi, che ha anche raccolto alcuni testi di Camus, inediti in Italia, nel volume Il calendario della libertà .
Todd è un testimone diretto, insostituibile: ha raccontato Camus da complice, da amico, da critico letterario e da analista del costume. Ci porta nel suo mondo, che era anche quello di Simone de Beauvoir e di Sartre, cui si deve un insuperato saggio su L’étranger (Che cos’è, si chiedeva Sartre, l’assurdo di Camus? «Niente altro che il rapporto dell’uomo con il mondo»). Nelle pagine di Todd vediamo sfilare davanti a noi, descritti con l’occhio di chi deve bilanciare un eccesso di giustificata partecipazione con i doveri dell’obbiettività, personaggi quali Gide, Malraux, Merleau-Ponty, i Gallimard, eccetera. Tanase, grande estimatore di Camus, fruga viceversa nella vita privata dello scrittore, descrive le sue disavventure professionali con l’imparzialità dello storico. Ricostruisce a tavolino, lavoro assai utile quando venga fatto con scrupolo come qui, la figura pubblica di Camus. Amori, polemiche letterario-politiche, qualche pettegolezzo. Insomma un po’ tutto di questo maestro nemico delle cattedre, morto senza essersi piegato ai compromessi del successo, che ebbe a dire «Io mi rivolto, dunque noi siamo»


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