by Sergio Segio | 29 Ottobre 2013 7:28
«Dall’Ucraina all’Abkhazia una cortina di ferro sta scendendo attraverso l’ex Urss», direbbe oggi un redivivo Churchill. Quasi tutte le ex repubbliche sovietiche «giacciono in quella che devo chiamare sfera russa (sovietica, nell’originale)) e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza russa (sovietica) ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo di Mosca».
Perfetto. Invece che in verticale («da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico», disse Churchill a Fulton) il filo spinato va grosso modo in orizzontale, tra l’Ucraina meridionale, là dove si parla e si scrive quasi soltanto russo, e l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, le due province russe all’interno del territorio georgiano. Invece che dividere in due l’Europa, stavolta la cortina di ferro separa, tra i leader post-sovietici, quelli che piacciono a Putin, perché gli osservano obbedienza e dimostrano ossequio, da quelli che non gli piacciono.
Che sono poi quelli che mostrano di preferire l’Unione europea all’Unione economica euroasiatica che il nuovo zar sta mettendo in piedi con il sostegno della Bielorussia e del Kazakhstan, cioè il tiranno Lukashenko e l’autocrate Nazarbaev.
È da tempo che Mosca sta facendo di tutto, usando alternativamente il bastone e la carota, per dissuadere tre ex repubbliche sovietiche — Moldavia, Armenia e soprattutto Ucraina — da firmare un accordo di commercio e cooperazione con l’Unione europea e convincerle invece ad aderire all’Unione euroasiatica. L’Armenia ha finito per cedere e un mese fa ha aderito alla creatura di Putin. La Moldavia per ora regge. Ma la vera partita si gioca con Kiev, per ovvie ragioni di dimensioni, distoria,di interessi economicie di prestigio.
AdireilveroViktorYanukovich,illeaderucrainoeletto nel 2010, è assai più vicino, e più simile, a Putin di quanto lo fossero i suoi predecessori, portati al potere dalla Rivoluzione Arancione del 2004. L’autoritarismo del presidente ucraino definito “soft” nei primi anni è diventato sempre più “hard” e il suo programma anticorruzione sièconcentratosoprattuttosull’opposizione. A cominciare dall’ex premier Yiulia Tymoshenko, che resta in carcere nonostante le richieste della Ue che venga rilasciata e affidata a un paese terzo per ricevere le cure mediche di cui ha urgente necessità.
La reticenza di Yanukovich alle pressioni di Bruxelles pone la Ue di fronte a un dilemma molto serio: gli interessi geopolitici, o se più aggrada la brutale Realpolitik, devono prevalere nei confronti di un Paese che non si uniforma ai valori dell’Unione? L’alternativa, però, è che l’Ucraina, per non finire economicamente strozzata, decida di aderire all’Unione euroasiatica di Putin. Il vecchio Henry Kissinger non avrebbe dubbi: turiamoci il naso e facciamo entrare l’Ucraina in Europa.
Tanto più che in questo Risiko assai complicato c’è in gioco anche un’altra ex repubblica sovietica che ha appena sotterrato un’altra rivoluzione di colorate speranze, quella delle Rose. La vittoria nelle elezioni presidenziali di uno sconosciuto filosofo, Georgij Margvelashvili, è in realtà la fine della linea filo-americana di Mikhail Saakashvili (che lo portò a una sciagurata guerra con la Russia nel 2008) e il successo del primo ministro in carica, l’enigmatico miliardario Bidzina Ivanishvili. Il quale tra Putin e Obama ha, con grande pragmatismo, scelto il primo con questa realistica dichiarazione: «Non si può cambiare la Russia: è meglio lavorare su noi stessi e lavorare con la Russia così come è». Chi aveva detto «se non puoi batterli, unisciti a loro»?
In questo magmatico quadro di relazioni tra ex inquilini dello stesso palazzo riemergono vecchie tensioni e rivalità dell’era sovietica. I russi non hanno mai amato i georgiani, tanto che hanno considerato Stalin solo un male minore rispetto a Hitler, ma non il padre dei popoli che proponeva la propaganda. L’Ucraina ha dominato per decenni le alte gerarchie del Pcus sovietico, creando nel dopo Stalin feroci rivalità tra la “linea dinastica” russa e quella ucraina. Lo stesso Nikita Krusciov si era formato in Ucraina, dove era stato a lungo primo segretario del partito. Nella trojka che lo fece fuori e lo sostituì al potere c’erano due ucraini (Leonid Breznev era di Dniprodzerzhinsk e Nikolaj Podgorny di Karlivka) e un solo russo (Kossighin, che era di Leningrado, oggi San Pietroburgo). E a completare questa saga di vecchi veleni e nuove rivincite c’è il fatto che l’accordo tra l’Ucraina e la Ue dovrebbe essere firmato a Vilnius, la capitale di una delle tre repubbliche baltiche che Mosca soggiogò per decenni e che furono tra le prime a scappare dalle macerie dell’Urss per rifugiarsi nell’Unione europea.
Questi corsi e ricorsi della storia accrescono l’ira funesta di Putin. Che si abbatte implacabile sui dissidenti, siano essi Stati o individui. Sabato è uscita sul Financial Times un’intervista (scritta e ottenuta attraverso i suoiavvocati)all’exoligarcaMikhailKhodorkovskijper il decimo anniversario del suo arresto. Un documento agghiacciante nella descrizioni delle condizioni di detenzione nel campo di lavori forzati in Karelia, dove attualmente “soggiorna”. Il quotidiano inglese l’ha intitolata “Un giorno nella vita di Khodorkovskij”. Riproponendo il titolo del primo lavoro di Aleksandr Solgenitsyn, che svelò come era la vita nei lager sovietici (Un giorno nella vita di Ivan Denisovic).
Ma forse a Putin questo titolo non è dispiaciuto. In fondo dimostra che la resurrezione dell’Urss gli sta riuscendo bene.
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