LA POLITICA DEI VAFFA

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Attraverso un duello personale con il capo dello Stato, individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione europea, il capo dei 5 Stelle punta a amplificare la parola d’ordine su cui ha convocato per il 1° dicembre a Genova il suo terzo Vday: «L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa ». Quel giorno prenderà il via una campagna elettorale il cui scopo è fin troppo chiaro: trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue; e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista. Napolitano è il bersaglio ideale di questa offensiva.
Il manifesto di convocazione del Vday si chiude con l’indicazione di questo obiettivo: «Vogliamo vincere le prossime elezioni, a iniziare da quelle europee». Non si tratta di una
boutade,
ma di un calcolo che tiene conto anche del sistema proporzionale con cui si voterà nel maggio 2014. Grazie ad esso, vi sono ragionevoli possibilità che una campagna elettorale impostata sulla contrapposizione “Europa sì – Europa no” veda imporsi come partito di maggioranza relativa la formazione grillina. Che confida di avere buon gioco nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale.
La stessa contrarietà dichiarata da Grillo all’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, conferma questo suo proposito: vuole assecondare la sindrome da invasione straniera, impersonata altrove dai partiti populisti e xenofobi antieuropei, per offrirsi così come punto di riferimento all’elettorato di destra in libera uscita. Punta anche lì a fare il pieno di voti. Ma ben oltre tale corrività strumentale, il progetto di Grillo è ambizioso: esso mira infatti a una clamorosa bocciatura per via elettorale di quegli “stupidi” parametri con cui, vent’anni fa a Maastricht, si diede vita a una Unione prima finanziaria e monetaria che politica; parametri inaspriti ulteriormente, sotto i colpi della recessione, con i vincoli di bilancio pretesi dalla cancelleria di Berlino e con il rubinetto della liquidità creditizia gestito dalla Banca Centrale di Francoforte.
Grillo sa di riscuotere vasto consenso quando parla di «tributo di sangue» imposto dall’Europa all’Italia. Nella sua propaganda, «Imu, Iva, Tarsu, Tares, Trise sono il frutto della religione dell’austerità ». Poi, nel 2016, entrerà in vigore il Fiscal Compact, col quale «siamo condannati a trovare ogni anno 50 miliardi per i prossimi vent’anni». Senza peraltro che ciò garantisca il ripianamento del nostro debito pubblico.
Ecco l’argomento anti-Ue grazie a cui Grillo confida di imporsi come maggioranza relativa in Italia: le enormi cifre che l’Europa ci impone di versare, da sole «basterebbero a riavviare la nostra economia e a fare del nostro Paese uno Stato florido». Dunque l’Europa sarebbe un impedimento anziché la levatrice della nostra rinascita.
Demagogia? Non c’è dubbio, ma efficacissima. Tanto più se la mettiamo a confronto con la confidenza sfuggita alla Sorbona di Parigi, venerdì scorso, al nostro primo ministro Enrico Letta: «Dirò qualcosa di impopolare, ma se non avessi avuto lo scudo comunitario, non avrei potuto dire no a chi in Italia faceva pressione per aumentare il debito».
Mi chiedo se, oltre che “impopolare”, quella di Letta non sia anche una dichiarazione d’impotenza. Lo stesso argomento, peraltro, fu usato in pubblico da Berlusconi nell’estate 2011, quando si rallegrò di aver ricevuto per lettera dalla Bce l’imposizione di provvedimenti che il suo governo altrimenti non sarebbe stato in grado di varare.
Qualora la contrapposizione rimanesse così brutalmente semplificata — da una parte Grillo che propone la sconfessione dei trattati europei; dall’altra il governo che si trincera dietro lo “scudo comunitario” pur di non rivedere i vincoli di bilancio — temo che l’esito delle elezioni europee sia segnato: col partito dell’austerità destinato alla sconfitta, Renzi o non Renzi. Più difficile è immaginare quali effetti traumatici sortirebbe, su tutta l’Unione, la vittoria di un movimento antieuropeo in un grande Paese come Italia.
È per questo che oggi appare così drammatica l’irrilevanza cui sembra condannato il progetto sociale e politico di una sinistra europeista.
Viviamo un passaggio storico cruciale in cui sembrerebbe che l’Europa dei cittadini indebitati, dei giovani disoccupati, del ceto medio impoverito, del Quinto Stato in cui confluiscono milioni di lavoratori parasubordinati, autonomi, precari, possa trovare solo nel populismo nazionalista uno sbocco politico al suo malessere.
Non solo. Viviamo anche un passaggio generazionale. Dopo l’europeismo dei padri fondatori, dopo la visione sociale di Delors e Prodi, dopo il cosmopolitismo sessantottino dei Cohn-Bendit, Langer, Fischer, Michnik, è come se ci fosse un vuoto di cultura della cittadinanza e del comune destino europeo. Ancor più evidente in Italia.
La personalità più riconosciuta sul piano continentale della sinistra italiana, Giorgio Napolitano, nella sua veste di garante istituzionale, è divenuto il principale interlocutore dei partner dell’Unione, e come tale appare proteso in un faticoso impegno di salvaguardia degli architravi comunitari vacillanti, che non offre margini di manovra. Non a caso privilegia il rapporto con il governatore Draghi. Ma nel frattempo chiunque da sinistra, con finalità di giustizia sociale, adombri una revisione dei trattati e un allentamento della politica di bilancio, rischia l’accusa di sovversivismo. Neanche l’appello del Gruppo Spinelli del Parlamento di Strasburgo, primi firmatari Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt, «per una rivoluzione post-nazionale in Europa», ha finora trovato sostenitori in Italia. Esso afferma che «gli Stati nazionali hanno avuto un ruolo molto importante nella civilizzazione europea ma adesso sono superati». Contrappone al nazionalpopulismo dilagante l’attualità degli Stati Uniti d’Europa. Individua nella Grecia e nel suo dramma l’epicentro su cui rifondare una nuova comunità di destino europeo. Qualcuno gli darà retta?
Sarebbe prezioso che in campagna elettorale emergesse una visione europeista disincagliata dai parametri di Maastricht e dal Fiscal compact: unica vera alternativa al catastrofismo no-euro di Grillo, nutrito dai fallimenti di una tecnocrazia che s’illude ancora di trovare riparo dietro allo “scudo comunitario”.


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