La Costituente per i beni comuni incontra i No Tav

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Il territorio valsusino è il teatro di una battaglia che in molti considerano come un laboratorio giuridico nazionale della repressione e della resistenza che necessariamente seguirà all’incapacità politica di articolare un’uscita dalla crisi economica che ponga fine alla macelleria sociale. Per questo, date le incertezze precedenti la giornata romana del 19 ottobre scorso, una qualche preoccupazione aveva accompagnato la preparazione dell’assemblea, che ha infine trovato accoglienza nel quadro rassicurante delle prestigiose iniziative del «Grande Cortile». Non a caso il tema affrontato a Bussoleno è quello delle grandi opere, della partecipazione decisionale, delle comunità di riferimento nel governo dei beni comuni (chiuse o aperte? Originarie o allargate?) del loro diritto di resistenza a fronte di una repressione penale sempre più forsennata.
Il legame fra movimento No Tav e beni comuni è ormai articolato da tempo. Nel luglio 2011 a Torino un lungo corteo di 25.000 persone si mosse dietro uno striscione con la scritta «Il No Tav è un Bene Comune». Difficile negare che un movimento così coeso, ampio e resistente, che fa della ricerca e della contro-informazione la cifra della sua azione, interpreti in modo impeccabile la nozione ben articolata per cui «il territorio» costituisce il bene comune primario, che le popolazioni hanno il diritto-dovere di difendere nei confronti della micidiale tenaglia fra privato e pubblico che tende viceversa a sfruttarlo nell’interesse di pochi. Difficile è anche negare che le grandi opere siano la quintessenza di questo modello istituzionale «estrattivo» e che il loro rifiuto motivato e attivo costituisca di per sé un un bene comune, in quanto presupposto per diversi e più «generativi» utilizzi delle risorse. In parole semplici, i denari che non si gettano nelle grandi opere possono essere utilizzati per la microcura del territorio.
Ora, una certa inflazione della locuzione beni comuni – soprattutto gli evidenti tentativi di svuotarne il senso politico autentico -, hanno fatto emergere diverse posizioni critiche della stessa fruibilità politica della nozione. Ne segue che la capacità di articolare seriamente in chiave giuridico-istituzionale l’ampio aggregato problematico che si raccoglie intorno alla miriade di lotte dei «beni comuni» è cruciale.
La questione della soggettività giuridica collettiva e della sua compatibilità con le strutture profonde, individualistiche e verticali, della modernità giuridica è sul tappeto in Valsusa. Qual è la comunità che legittimamente rappresenta i beni comuni? Quali sono le dinamiche inclusive ed esclusive che la caratterizzano? In che modo una tale comunità produce dal basso un diritto legittimo, ancorché non di rado in contrasto con la legalità formale del potere costituito (e dunque in questo senso è costituente)?
È noto come il diritto di resistenza non fu mai un diritto individuale della persona ma sempre una manifestazione politica di collettività organizzate (molto spesso comuni pre-moderni) o di «magistrature inferiori» (come scriveva Machiavelli) capaci di resistere l’abuso del potere sovrano. Chi sono oggi queste «magistrature inferiori»? Come si resiste contro l’abuso del potere costituito? Quali sono i limiti della forza utilizzabile per contrastarlo efficacemente? Sono queste alcune delle domande che i giuristi impegnati in un tentativo di istituzionalizzazione dei beni comuni, non velleitario ma neppure puramente cosmetico, dovranno porre interrogando la prassi del territorio Valsusino.
Dovremo poi tornare a riunirci al Teatro Valle Occupato per restituire ai territori una teoria capace di costituirsi in pars construens di lotte sociali che non possono più permettersi di vivere senza una visione lunga.
Nel giorno in cui al Colorificio Toscano la magistratura pisana assiste allo sgombero da essa stessa fondato su una lettura incolta del diritto civile e del suo rapporto con quello penale, il valore della riflessione condotta dalla Costituente per i beni comuni è ancor più evidente. Anche perché gli appelli alle forze politiche costituite affinché rispettino la Costituzione non sembrano dare i frutti sperati.


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