by Sergio Segio | 21 Ottobre 2013 7:08
MITROVICA (Kosovo) — Poveri contro. Accade a metà pomeriggio. Nell’unico momento in cui Leonarda smette d’esternare alle telecamere ed esce dal civico 32 del quartiere più depresso di Mitrovica, Tavnik City, la stamberga dove Hollande l’ha ricacciata. La rom più famosa del mondo, con papà Resat e mamma Dzemila e i cinque fratelli, infila le scarpe lasciate nel giardinetto di foglie secche, la legna già accatastata per l’inverno, i panni stesi. La testa è bassa. Oltre la palizzata sghemba c’è un taxi che aspetta, un furgone blu: «Andiamo a trovare mio cugino — dice il capofamiglia dei Dibrani — state qui, ci vediamo tra mezz’ora…». Dal marciapiede di fronte, i nuovi vicini scrutano torvi: «Guardali — è sprezzante Astrit Berani, 20 anni, che è stato espulso pure lui, ma non ha mai avuto questo cancàn mediatico e un po’ ne soffre — sono tanto disperati che se ne vanno in giro col taxi! Il governo kosovaro gli paga anche i 500 euro d’affitto, per far bella figura col mondo!».
L’aria pesa d’invidia, a Mitrovica. E tutti questi riflettori, il braccio di ferro con l’Eliseo, le lacrime tv e i cortei parigini, ora tutto si moltiplica nell’odio restituito di chi non ha mai avuto niente, nemmeno un po’ di quell’attenzione. Passa un’ora ed è papà Resat, sorpresa, a rifarsi vivo: «Siamo in ospedale! — la voce al cellulare è agitata —. Siamo stati aggrediti e rapinati! Sei-sette giovani ci hanno presi a schiaffi mentre passeggiavamo!». Ma chi erano? «Non lo so!». Mamma Dzemila è ricoverata al pronto soccorso, i figli sono scioccati. Niente di grave, per i medici. Una grana, per la polizia: «È la dimostrazione — certifica un agente — che qui i Dibrani non sono al sicuro». Gli aggressori, già fermati, sarebbero d’un clan rom, quello dei Bislimi, rimpatriati dalla Svizzera quattro mesi fa. Al centro, un’oscura disputa da regolare: c’è di mezzo un bimbo che Dzemila avrebbe avuto da un membro della famiglia Bislimi quando era sposata con lui, 25 anni fa.
Indesiderata in Francia, minacciata in Kosovo. La vita provvisoria di Leonarda sono i ceffoni, la diffidenza, un’intolleranza che a Mitrovica — la città divisa dalla guerra del ’99, dove la maggioranza albanese considera i gitani gli amici dei nemici serbi, i becchini delle fosse comuni dei tempi di Milosevic — è anche più forte che da noi. Nell’antica città di San Demetrio, che Tito ribattezzò Titova, oggi il latte costa un euro al litro e bastano 200 euro a passare per ricchi. I modelli irraggiungibili sono gli emigrati che ce l’hanno fatta col calcio italiano, i Behrami o i Krasic. Il sogno minimo è dormire sui marciapiedi di Parigi e aspettare papiers che l’Europa concede sempre meno: «Stanno cominciando i negoziati per il Kosovo nell’Ue e uno dei requisiti richiesti è una maggiore severità nei visti — dice il vicesindaco, Riza Haziri —. Solo quest’anno, sono rientrate 26 famiglie irregolari. Certo, nessuna ha avuto una simile pubblicità…». «Siete tutti qui a intervistare questa ragazza — protesta il vicino Astrit —. Lo sapete che dalla Svezia hanno rispedito qui un bambino di 9 anni, Rilind, che ha la leucemia ed è in carrozzella? Non si possono pagare le sue cure, così ce l’hanno ridato…». A 15 anni, per le false dichiarazioni del padre sul suo status di profuga, per l’ottusità d’una burocrazia che l’ha strappata alle scuole e al fidanzatino francesi, per l’inflessibilità d’un ministro che ieri ha ripetuto «i Dibrani non torneranno mai in Francia», pure Leonarda sta sperimentando il limbo dei senzapatria. «Io non sapevo nemmeno dove fosse Mitrovica — racconta sul divano sgangherato del salotto —. Sono nata in Italia e cresciuta in Francia, non so neanche l’albanese. Il signor Hollande mi può spiegare che ci faccio qui?».
Monsieur Eliseo ha qualche problema a chiarirlo.
Francesco Battistini
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