INGRAO PROFETA CONTRO LA “CASTA”

by Sergio Segio | 9 Ottobre 2013 7:20

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Entrare in quel gran cantiere mai chiuso che è la vita di Pietro Ingrao, è atto temerario, ma pure necessario, se si vuol cogliere il senso di molte cose italiane, Ricorro alla parola “vita”, e non “scritti” o “opera”, perché davvero vi è un tutt’uno di azione politica e di riflessione teorica, di curiosità intellettuale e di introspezione poetica. Per esperienza diretta, posso aggiungere che proprio questo sfaccettarsi, questo arricchire ininterrottamente esperienza e presenza pubblica, ha indotto più d’uno, nelle occasioni più diverse, a costruirsi un “suo” Ingrao. Cosa che, per un verso, può divenire o apparire come una incapacità di fare i conti con una figura complessa; ma, al tempo stesso, esprime pure un bisogno di identificazione, al di là di quelli che possono essere dissensi o distanze.
Ingrao coglie l’esito estremo della deriva che spinge verso la trasformazione della persona del lavoratore in “cosa”, sottolinea l’inaccettabilità “etica” di questo passaggio che mette in discussione una delle acquisizioni della modernità. Si tratta, allora, di recuperare l’umano, e parla appunto di “resistenza umana”, sottolineando con forza la necessità di non rimanere prigionieri della logica quantitativa, di dare rilevanza alla vita del lavoratore anche nei suoi gesti minuti, quotidiani, quelli appunto che manifestano concretamente la sua umanità. Bisogna “sporgersi” al di là della pura logica dello scambio, riconoscere che questa non può invadere ogni spazio, cancellare la notte o il riposo, dove il lavoratore ritrova se stesso. È il tema della dignità come principio fondativo e limite invalicabile, che trova espressione nell’articolo 41 della Costituzione, dove si afferma in modo netto che l’iniziativa economica privata non può svolgersi «in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di nuovo la figura del lavoratore incarna una condizione umana che riguarda ogni persona.
Colpisce una declinazione che Ingrao propone del suo gran tema del rapporto tra masse e potere, della ribadita centralità del Parlamento, quando affronta il problema della delega e del collegamento tra elettori ed eletti, parlando di una “rete generale democratica”. Ancora una volta, però, non fermiamoci soltanto alla felice attualità di una parola, “rete”, con la quale Ingrao indica un disegno costituzionale fatto di relazioni collettive, capaci di dare evidenza ad una molteplicità di soggetti, istituzionali e non, fino a giungere alla possibilità per i lavoratori gestire l’azienda.
Pur rimanendo sullo sfondo quest’ultima ipotesi, l’analisi di Ingrao porta con sé una duplice critica: all’eccesso di centralismo statale e, in parallelo, all’emersione di tendenze oligarchiche nel sistema politico. Vi è una frase rivelatrice, che vale la pena di trascrivere integralmente: «la proprietà statalizzata è risultata non già comunanza, ma appropriazione dispotica di una casta politica ». Sono parole del 1991. Cogliamo qui l’indicazione di una linea politica che non ripropone la tradizionale critica alla proprietà privata, ma investe la proprietà pubblica, non più considerata come l’unica alternativa desiderabile. Al tempo stesso, però, non si offre legittimazione alla via delle privatizzazioni, allora considerata quasi obbligata, poiché la vera alternativa viene ritrovata nella ricostruzione di una proprietà in cui giochi la presenza di soggetti collettivi.
Della critica alla “casta politica”, e alla deriva oligarchica già allora visibile, credo che faccia parte anche la riflessione sulla “scelta di vita” che portava alla dedizione totale della persona al partito. Da una parte, infatti, troviamo l’impietosa denuncia della «vacuità delle risse di bandiera dei corpi chiusi, che competono dentro un ceto politico per deleghe sempre più cifrate». Dall’altra, emerge la preoccupazione che, divenuti politica e agire sociale «solo una parte della vita », ciò possa portare al tramonto dell’agire associato, con il rischio che i lavoratori perdano «una loro fratellanza di condizione». Torna così il tema delle soggettività necessarie nella nuova fase, senza alcuna compiacenza per la generica esaltazione della società civile che prese la politica italiana nei primi anni ’70, nella quale si rifletteva una cattiva coscienza del ceto politico, ma che è all’origine di molti mali di cui ancora si paga il prezzo. È proprio del 1993, infatti, uno scritto dal titolo rivelatore, “La faccia buona della società civile” che prende lo spunto da una grande manifestazione operaia, alla quale si guarda come ad «una grande risorsa umana», capace di indicare un «orizzonte generale» nella sua rivendicazione non particolaristica, ma di «un essenziale diritto di cittadinanza».
Non dirò che un cerchio si chiuda. Ma l’associazione stretta tra democrazia, diritti e lavoro, nello scorrere delle pagine, viene ricostruita e ribadita con una adesione così forte alla condizione umana che davvero da essa non possiamo separarci.
Questo testo è parte del saggio introduttivo di Stefano Rodotà al libro di Pietro Ingrao La Tipo e la notte. Scritti sul lavoro, pubblicato da Ediesse in uscita in questi giorni. Stefano Rodotà è il vincitore del Premio De Sanctis per la Saggistica, per il volume Il diritto di avere diritti (Laterza).
La cerimonia di consegna del premio avverrà domani a Roma, alle 18 a Villa Doria Pamphili
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IL LIBRO
La Tipo e la notte, di Pietro Ingrao Ediesse pagg 208 euro 14

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