INFORMAZIONE E DEMOCRAZIA IL MANTRA DEI NUOVI TYCOON

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La massa d’investimenti che si muovono dal centro globale delle innovazioni tecnologiche verso il mondo dell’informazione, è ormai una tendenza vigorosa. È troppo diffusa perché si tratti di una moda passeggera. Coinvolge personaggi troppo diversi tra loro, perché ci sia dietro solo una narcisistica ricerca di notorietà, o un angusto tornaconto politico- lobbistico. Finché si trattò di Jeff Bezos, fondatore e azionista di Amazon, che ad agosto mise sul tavolo 250 milioni di dollari per comprarsi il Washington Post, i sospetti di cui sopra potevano essere legittimi.

Le dietrologie si sprecarono, si andò a cercare una qualche “agenda politica” che il patron di Amazon poteva difendere possedendo lo storico quotidiano della capitale federale. Fu anche sottolineato che Bezos pagava una cifra modesta — in proporzione al proprio patrimonio personale che e` di 29 miliardi — per procurarsi un “trofeo” di prestigio (il quotidiano che denunciò il Watergate). Ma gli stereotipi non reggono alla prova di quel che va accadendo da mesi. Tra le ultime mosse c’é quella di Pierre Omidyar, 46enne fondatore di eBay, con un patrimonio di 8,5 miliardi: ha assunto il reporter Glenn Greenwald, reso celebre nel mondo per aver svelato sul Guardian inglese la vicenda del Datagate, il cyber-spionaggio invasivo della National Security Agency. La missione affidata dal fondatore di eBay a Greenwald è continuare a svolgere il proprio mestiere con un sito di news apposito. “Watchdog” è la parola-chiave: letteralmente significa cane-guardiano. È una parola che ha un senso antico e nobile nella liberaldemocrazia americana, assegna al Quarto Potere un ruolo essenziale di vigilanza, bilanciamento e controllo sugli altri tre poteri costituzionali della Repubblica. Iniziative analoghe vedono come protagonisti la vedova di Steve Jobs, fondatore di Apple, e altri nomi meno noti della Silicon Valley. Non passa inosservata la scelta di un gigante della Old Economy, Warren Buffett, che di recente ha collezionato ben 63 quotidiani locali. Buffett non è sullo stesso piano degli attori della Silicon Valley, nel senso che non è un innovatore. Tuttavia ha un acume raro per le opportunità d’investimento.
Le strade che imboccano gli investitori venuti dall’economia digitale sono variegate. C’è chi, come Bezos, crede di poter reinventare e rilanciare un grande quotidiano storico. C’è chi predilige contenitori esclusivamente online. C’è chi guarda a un business model misto, dove si rafforzano delle centrali di giornalismo investigativo supportate da istituzioni non profit: fondazioni, Ong, scuole di giornalismo. È un’esplosione di sperimentazioni, tipica della mentalità con cui è cresciuta la Silicon Valley: in un laboratorio incubatore di innovazioni si devono tentare le strade più ardite, sapendo che alcune si riveleranno sbagliate. Ma queste incursioni di giovani imprenditori dell’hi-tech hanno alcuni tratti comuni. La fiducia nel ruolo insostituibile dell’informazione in una società democratica. La consapevolezza che il “consumo” d’informazione sta crescendo a dismisura, raggiunge volumi mai visti nella storia umana, anche se una parte di questo consumo è stato assuefatto alla gratuità (Steve Jobs a suo tempo dovette affrontare un problema simile: il modello Napster aveva attirato una generazione di giovani verso il godimento gratuito della musica). Un padre storico della Silicon Valley, l’inventore del microchip Federico Faggin, traccia un’analogia con l’avvento della fotografia digitale al passaggio del millennio. Chi non la capì e tentò di rimanere nel business delle macchine fotografiche e delle pellicole è scomparso (Kodak); ma poiché oggi il consumo di foto ha avuto una vertiginosa escalation, altri hanno saputo proliferare inventando nuovi business per catturare questo boom di attenzione (Instagram, fra tanti). Chi ha creato dal nulla delle attività, come appunto Amazon e eBay, vuole trasferire la stessa vena “rivoluzionaria” nel reinventare l’equazione economica del produrre informazione. Al tempo stesso c’è il riconoscimento che il patrimonio di credibilità acquisito sotto il nome di una testata (Washington Post) o di un reporter d’eccezione (Greenwald) ha un valore che può essere rilanciato con nuove piattaforme e nuove strategie.
È avvincente lo spettacolo dell’America più dinamica e innovativa, che dopo avere partorito le tre rivoluzioni del personal computer, poi di Internet, infine dello smartphone e dei tablet, si cimenta con la missione storica di contrastare il declino della carta stampata. Anche a livello locale, si avverte che la scomparsa del piccolo quotidiano di provincia i cui cronisti frequentano ogni seduta del consiglio comunale, impoverisce la democrazia e indebolisce la società civile. Figurarsi un mondo in cui il Pentagono potesse condurre le sue guerre senza più corrispondenti e inviati della stampa a verificarne le versioni ufficiali; dove la Nsa-Grande Fratello potesse operare le sue scorribande nella nostra privacy senza oppositori organizzati e credibili. Cresce anche l’insoddisfazione verso uno scenario in cui prosperino solo i giganteschi contenitori- riciclatori di news, alla Google. In quanto al timore che i golden boys delle tecnologie cerchino una scorciatoia per rafforzare la propria influenza politica, basta leggersi le recenti inchieste che il Washington Post sta dedicando al proprio nuovo padrone: sono una lezione di autonomia dei reporter.


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