In armi o indipendente Quale futuro per il giornalismo

by Sergio Segio | 29 Ottobre 2013 7:13

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NEW YORK — «Caro Bill, il New York Times ha fatto anche dell’ottima informazione, ma il suo modello di “reporting” tradizionale ha prodotto moltissimo giornalismo atroce e abitudini tossiche che, diffondendosi tra i redattori, hanno indebolito la professione: basta col giornalismo codardo» che, per paura di apparire non indipendente, evita di prendere posizione.
«Caro Glenn, il giornalismo degli attivisti ha una storia illustre, ma noi crediamo in un altro modello. Più laborioso e articolato di una polemica tonante. E’ meno eccitante, ma dà risultati più solidi, migliori: sospendiamo i giudizi cercando di fare in modo che siano i fatti a parlare da soli. Offriamo al lettore gli elementi per farsi un’opinione da solo».
Il lunghissimo scambio epistolare elettronico tra l’ex direttore del New York Times Bill Keller e Glenn Greenwald, l’avvocato-blogger-editorialista che è stato fin qui anche l’estensore degli articoli del Guardian basati sui documenti segreti del governo Usa trafugati da Edward Snowden, è un botta e risposta avvincente e drammatico che potrebbe essere rappresentato su un palcoscenico teatrale.
Ma è anche una pagina importante della discussione sull’evoluzione del mondo dell’informazione nell’era di Internet. Una pagina che probabilmente si conquisterà uno spazio nella storia del giornalismo. Anche per questo è curioso che il carteggio elettronico, pubblicato sul sito del quotidiano, non abbia trovato spazio sul New York Times di carta.
Keller è una figura-chiave di questi anni di sconvolgimento dei canoni informativi. Nel 2010 ha gestito da direttore il coinvolgimento del Times nell’operazione WikiLeaks. Prima collaborando con Julian Assange, poi rompendo con lui e col suo metodo basato su un giornalismo militante e sull’uso senza filtri di materiale top secret trafugato. Alla fine di quell’avventura Keller spiegò dettagliatamente ai suoi lettori i passaggi di quella vicenda complessa, tormentata e con alcuni aspetti oscuri.
Qualche mese fa, con Jill Abramson ormai da tempo alla direzione, Keller, che ora è un editorialista del quotidiano, criticò sul New Yorker il Guardian non per aver pubblicato il materiale trafugato da Snowden, ma per aver consentito che fosse un editorialista-attivista come Greenwald e non il corpo redazionale a informare i lettori del quotidiano britannico.
Micidiale la replica di Greenwald: «Se manifesti le tue opinioni non sei un vero giornalista? Ma taci, tu che sei il responsabile di una delle maggiori disgrazie giornalistiche dell’ultimo decennio: nel 2004 avevi notizie sui guai combinati da Bush alla Nsa e te le sei tenute 15 mesi nel cassetto. Hai aspettato la sua rielezione prima di pubblicarle».
Keller non è stato zitto, ma non ha alzato nemmeno i toni dello scontro. Gli ha risposto in modo pacato: «Abbiamo pubblicato e siamo stati attaccati furiosamente per questo dalla destra; lo abbiamo fatto quando abbiamo ritenuto con un giudizio indipendente che non ci fossero più pericoli per la sicurezza nazionale». Così facendo ha aperto la strada a una discussione di enorme interesse. Nella quale Greenwald annuncia l’avvento di un nuovo giornalismo coraggioso, determinato, militante, che non si vergogna di esprimere le proprie opinioni, ma che si basa sempre sui fatti. Un metodo più efficace di quello che in Italia definiremmo cerchiobottista: l’abitudine, sempre più diffusa tra i giornalisti americani dei media tradizionali, di esporre in ogni vicenda il punto di vista degli uni e degli altri, senza mai sbilanciarsi a spiegare che una delle due parti sembra avere torto marcio.
Greenwald lo liquida come un metodo di informare noioso, oltre che privo di efficacia. Quello che ha spinto, ad esempio, la stampa ad essere a lungo assai poco critica per l’intervento americano in Iraq. Nonostante quella lezione i giornalisti ora si fanno mettere di nuovo sotto da un Obama più duro di Nixon nel reprimere le fughe di notizie.
Keller riconosce che il giornalismo tradizionale ha le sue colpe: sensazionalismo, scarsa cura nel riportare le notizie, imbeccate del governo non verificate. E condivide la denuncia sull’amministrazione Obama: «L’uso massiccio dell’Espionage Act (la dura legge anti-spie del 1917) e la minaccia di imprigionare i reporter hanno creato un clima di ostilità intorno al giornalismo investigativo che è un pericolo per la democrazia».
Ma, mentre tutto questo per Greenwald giustifica il ricorso a figure come Snowden e il soldato Bradley Manning, che pagherà con 35 anni di carcere la sottrazione di centinaia di migliaia di documenti segreti dagli archivi del Pentagono, l’ex direttore del Times è convinto che il modello di giornalismo imparziale della stampa tradizionale oggi sia più necessario che mai. Lo è soprattutto in quest’epoca digitale nella quale si diffondono nuovi media basati sulle affinità dei soggetti che aderiscono a una rete sociale. E i cittadini sempre più spesso hanno la sensazione di essere informati mentre, in realtà, sono immersi in una camera degli echi nella quale ascoltano sempre lo stesso punto di vista e «non si trovano mai davanti un’informazione che sfidi i loro pregiudizi».
Greenwald ora sta lasciando il Guardian per dar vita a una nuova avventura giornalistica digitale nella quale avrà come editore il miliardario del Web Pierre Omidyar che vuole fare informazione attraverso una costellazione di grandi firme del giornalismo. Un’impresa che si inserisce nella tendenza sempre più diffusa a trasformare i giornalisti in «brand» individuali. Un modello al quale Keller oppone la validità dell’istituzione-giornale, con la sua capacità di essere autorevole e credibile, di garantire un metodo di lavoro omogeneo, di fornire strumenti, «database», sistemi di verifica e protezione legale: quello che serve per esercitare senza essere intimiditi il diritto alla libertà di stampa.
Massimo Gaggi

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