Il suo volto sorridente sul ponte di Vrbanja
Al centro, accanto alla targa che ricorda Suada Dilberovic e Olga Sucic – uccise durante le manifestazioni per la pace del 5 aprile 1992 – svetta una grande foto in bianco e nero di Moreno Locatelli. Il suo viso sorridente è accompagnato dalla scritta bianca del suo nome e, in rosso, la data della sua uccisione: 3 ottobre 1993.
Vent’anni fa Moreno, 34 anni, volontario dei Beati Costruttori di Pace, arriva a Sarajevo dopo aver partecipato all’iniziativa internazionale «Mir Sada – Pace ora. Si vive una sola pace». Nella città sotto assedio, con altri volontari si impegna in attività a sostegno della popolazione. Il 3 ottobre, nonostante le sue forti perplessità, partecipa ad un’azione simbolica organizzata dai Beati sul ponte Vrbanja. Lo scopo è lasciare una corona di fiori sul ponte – luogo delle prime due vittime civili della guerra, Suada e Olga – e rivolgere un appello di pace alle parti in conflitto.
Le forze militari che si contrapponevano da una parte all’altra del ponte, erano state informate dell’iniziativa e invitate al cessate il fuoco. Invece sui cinque italiani vengono esplose raffiche di mitra. Moreno Locatelli viene colpito da un cecchino.
Siamo una cinquantina, persone venute dall’Italia e cittadini bosniaci che avevano conosciuto Moreno. Ci sono anche le istituzioni. Il neo Ambasciatore d’Italia a Sarajevo, Ruggero Corrias, e il vicesindaco di Sarajevo Grad, Ranko Covic. Ci sono poi Don Albino Bizzotto, presidente dei Beati Costruttori di Pace, associazione di volontariato con sede a Padova di cui Moreno faceva parte, e rappresentanti di Sprofondo, associazione fondata da Don Renzo Scapolo che a Sarajevo opera da quasi un ventennio.
Sotto la foto di Moreno, gli amici posano bouquet di fiori, lilla, rossi e bianchi. Qualcuno ha appoggiato un cesto con dentro una grande pagnotta che porta la scritta «MIR» (Pace). Ci incamminiamo verso Grbavica, dove una via porta il nome «Ulica Gabrijele Moreno Locatelli». A parlare per primo, sotto alla targa di marmo bianco apposta qui nel 2003 dalle istituzioni, è il vicesindaco Covic: «È per me un’onore essere qui oggi, in rappresentanza di tutta Sarajevo, per portare il saluto al grande amico Moreno, che dimostra che ci sono stati tanti volontari, anche nei momenti più difficili della guerra, venuti da tutto il mondo che non ci hanno lasciato soli».
Tutt’intorno, in cerchio, quasi ad abbracciare la targa che porta il nome di Moreno, gli amici venuti da Canzo, comune lombardo dov’era nato e vissuto fino a metà degli anni Ottanta. «Lo conoscevo da piccolo, quand’era un ragazzino”, mi dice una signora dai capelli ricci grigi. Con le lacrime agli occhi e un sorriso leggero, prosegue: «Era ai tempi di quando veniva all’oratorio e si vestiva da frate…». Non riesce più a parlare per l’emozione. Da Canzo è venuto anche Marco, amico di famiglia di Moreno. «Porto i saluti della mamma di Moreno, che purtroppo non può essere qui. La vostra presenza e la viva memoria che questa città mantiene di lui è di grande sostegno ai suoi familiari».
Con le lacrime agli occhi parla infine un uomo sulla sessantina, con capelli grigi, lunghi e mossi. «Quel giorno, assieme alla mia famiglia, attendevo Moreno a cena per le otto. Avevamo deciso di festeggiare. In quei due mesi dal suo arrivo era diventato per me un figlio». A Boban Pejcic trema la voce. Si passa la mano sugli occhi e prosegue: «Invece nel pomeriggio mi è arrivata la notizia…». Durante la guerra era poliziotto, ma aveva collaborato con i volontari italiani nella distribuzione di lettere, legna, acqua e cibo. E ne era diventato grande amico: «Gli avevamo detto tutti, noi bosniaci che lavoravamo con lui, di non andare su quel ponte. Che sarebbero morti tutti. Lui ci aveva ascoltato, era contrario. Ma era un buono, e per spirito di solidarietà ha seguito i compagni».
Osservatorio Balcani e Caucaso ha avviato un progetto di ricerca sul movimento italiano di solidarietà con i Balcani negli anni ’90, “Cercavamo la pace”. Per informazioni: www.balcanicaucaso.org
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