Il sindaco e il Cavaliere due destini incrociati
L’8 dicembre. Berlusconi, in questo modo, intende, ovviamente, “trainare” la propria ri-discesa in campo. Utilizzando un evento di successo, in grado di mobilitare milioni di persone.
E l’attenzione dei media, com’è avvenuto un anno fa. Quando, all’indomani delle primarie, i sondaggi attribuirono al Pd stime di voto mai raggiunte, in passato. Ma neppure in seguito, visto il modesto risultato ottenuto alle elezioni di febbraio. (A conferma che le primarie non sostituiscono le campagne elettorali.) A Berlusconi interessa associare le primarie del Pd e il ri-nascimento di FI. Ma anche le due leadership. Renzi e, appunto, se stesso. In un momento in cui la stella di Renzi è ancora luminosa. Quella di Berlusconi molto fioca, se non proprio spenta. Renzi, d’altronde, non ha parlato di Berlusconi perché intende guardare al futuro. Mentre Berlusconi ha rilanciato, consapevolmente, il passato. Perché tale è FI. Un soggetto politico fondato giusto 20 anni fa. D’altronde, la fine del Pdl sancisce ciò che, di fatto, era già avvenuto. La scomparsa di An. Il partito post-fascista che aveva rotto con la tradizione fascista, appunto. Guidato da Gianfranco Fini, era divenuto un partito democratico della Destra europea. An, alle elezioni del 2006, aveva ottenuto 4 milioni e 700mila voti, oltre il 12%. FI: 9 milioni e quasi il 24% dei voti validi. Due anni dopo, alle elezioni del 2008, FI e An si erano riuniti dietro alle bandiere del Popolo della Libertà, “inventato” nel novembre 2007, da Berlusconi. Per rispondere (non a caso) alla fusione dei Ds e della Margherita nel Pd, guidato da Walter Veltroni. Il Pdl, in quell’occasione, riuscì a intercettare l’elettorato dei due partiti, oltre 13 milioni e mezzo. E ne rafforzò il peso percentuale: 37,4%. Un percorso concluso, alle ultime elezioni, 8 mesi fa. Nelle quali il Pdl ha perso 6 milioni e 300mila voti e oltre 15 punti percentuali. In altri termini: quasi 2 milioni e oltre 2 punti meno di FI da sola, nel 2006.
Berlusconi, dunque, ha semplicemente preso atto che An è scomparsa, insieme al suo leader, Gianfranco Fini. E ha tentato un “ritorno al futuro”. Allo spirito dei padri fondatori. Cioè, lui stesso. Dietro a questa scelta, c’è, ovviamente, il proposito di “eliminare”, insieme al Pdl, anche i traditori. Ma c’è anche l’intenzione, o almeno la speranza, di saltare sul “carro” di Renzi. Anch’egli, come altri dirigenti del Pd, divenuti, all’improvviso, tutti quanti e tutti insieme, “renziani”. Berlusconi, “renziano” anche lui. Per rientrare in gioco, contro il più “berlusconiano” dei leader del centrosinistra — secondo molti osservatori, non solo critici. A Matteo Renzi, d’altronde, questo inseguimento al contrario, rispetto al passato (quando tutti imitavano Berlusconi), non dovrebbe dispiacere troppo.
Anzitutto, perché Berlusconi non è certo finito, come dimostra la sua reazione di questi giorni. Ma è, sicuramente, più “vecchio”. In senso anagrafico e non solo.
Poi, perché, comunque, il rafforzamento di Berlusconi significa l’indebolimento di Enrico Letta e del governo di larghe intese. Il vero fortilizio dove agiscono gli oppositori di Berlusconi. Alfano e i ministri: del Pdl, non di FI. Il ritorno di FI, di conseguenza, significherebbe abbandonare al loro destino i ministri del Pdl. Ma anche il governo e il premier, Letta. La cui posizione appare in crescente contrasto con quella di Renzi. Perché, da un lato, Letta è l’unico leader, in Italia, che, per livello di popolarità e di consenso personale, possa competere con Renzi. E, anzi, nelle ultime settimane, sembra averlo superato. D’altra parte, comunque, il tempo gioca a sfavore di Renzi. La lunga durata, alla guida di un partito complesso, come il Pd, rischia di logorarlo. O, almeno, di appannarne lo smalto. «Mai più larghe intese », risuonato più volte ieri alla Leopolda, echeggia dunque come: «Mai più Letta».
Da ciò l’impressione che a Renzi, in fondo, il confronto con Berlusconi non dispiaccia. Perché evoca un modello di democrazia che gli piace e lo favorisce. Fondato sulla “personalizzazione”. Un processo in atto in tutte le democrazie occidentali. Anche se in Italia è stata condizionata dalla costruzione di “partiti personali”. Cioè, di partiti “privati”, dipendenti dalle risorse — economiche, comunicative e organizzative — di una persona. Per prima e prima di tutti, Forza Italia. Appunto. Il Centrosinistra ha, invece, respinto la “personalizzazione”, interpretando il ruolo del “partito impersonale”. Senza personalità e senza persone in grado di “rappresentarlo”. Nelle mani di “un’armata — poco gioiosa e molto disorganizzata — di micro-notabili” (come osserva Mauro Calise nell’acuminato saggio, emblematicamente intitolato Fuorigioco e appena pubblicato da Laterza).
Per questo la sfida lanciata da Matteo Renzi alla Leopolda non sembra rivolta tanto agli altri candidati, in vista delle primarie. Con i quali non c’è partita. Ma, soprattutto, al Partito Democratico in quanto tale. Cioè: in quanto “partito”, erede di “partiti” — di massa. Non a caso non ha voluto bandiere di “partito”. E ha dichiarato l’intento di “rottamare le correnti”, per prima la propria. Perché ciò che gli interessa, soprattutto, è scardinare la logica del partito. O meglio, dei partiti da cui provengono il Pd, i suoi consensi e i suoi gruppi dirigenti — centrali e locali. A Renzi interessa andare oltre le tradizioni e la storia — di chi “viene da lontano”. Oltre i post-democristiani e, prima ancora, oltre i post-comunisti. In altri termini: oltre il Pd. Per questo, in fondo, le strade di Berlusconi e di Renzi, per quanto percorse in direzione opposta, sono destinate a incrociarsi. Perché Berlusconi torna a FI per andare oltre il Pdl. Per restaurare il “partito personale”. Mentre Renzi intende vincere le Primarie per rottamare il Pd. Insieme a ogni larga intesa e a ogni Mediatore legittimato dal Presidente. Renzi: vuole fare il Sindaco d’Italia. In nome di una democrazia diretta e personalizzata.
Prepariamoci. Dopo il prossimo 8 dicembre nulla resterà come prima.
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