by Sergio Segio | 8 Ottobre 2013 10:13
D’intesa con i principali gruppi della distribuzione, la decisione assunta è stata quella di inserire sul fronte di ogni etichetta di cibi pre-confezionati un semaforo, che può avere la forma di un cerchio suddiviso in cinque spicchi. In ciascuno di questi spicchi è indicato un valore nutrizionale: calorie, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale.
A ciascun valore è associato un colore: se rispetto a 100 grammi di quel prodotto ci sono più di 12,5 grammi di zucchero, ad esempio, lo spicchio avrà fondo rosso. Se tra 5 e 12, 5, ambra. Se meno di 5, verde.
Ora, nelle intenzioni del governo inglese, che ha deciso di affrontare a muso duro il problema dell’obesità e della carenza di educazione alimentare, ci sono senz’altro due motivi di soddisfazione. Il primo motivo è che un governo conservatore in una delle nazioni a maggiore tradizione mercantilista superi il tabù di un intervento in campo economico radicale e costoso (per i privati) a fini di salute pubblica. Il secondo motivo è l’attenzione che viene per la prima volta prestata in modo tanto intransigente al bisogno dei consumatori (rappresentati in molte e combattive associazioni) di maggiore chiarezza in etichetta. Purtroppo, però, le ragioni di soddisfazione si fermano qui.
Il “semaforo” infatti rappresenta un tentativo di porre rimedio a storture che nascono da quando nel 1996 furono introdotti i Gda, ovvero le quantità massime di nutrienti, indicate per il consumatore medio, ai fini di una dieta bilanciata. Poiché nella genesi di quelle linee guida venne presunto un fabbisogno calorico mediamente elevato (specie per chi non svolge attività manuale o comunque faticosa) e soprattutto poiché quelli che erano limiti massimi (comunque troppo alti, sevarietà condo fonti indipendenti), da non superare assolutamente, vennero presto interpretati come il tetto da raggiungere ogni giorno – in termini di grassi e zuccheri semplici, ad esempio – quelle linee guida non sortirono i benefici effetti che, solo ingenuamente, qualcuno aveva potuto sperare.
Oggi si continua su quella strada, tentando una pezza sul buco, ma usando una pezza che presenta tratti profondamente sbagliati per chi, come Slow Food (ma non solo), promuove l’innalzamento del livello culturale dei consumatori, prodromico a loro scelte consapevoli, e un recupero di valorialità del cibo: questi due elementi mancavano nei Gda e continuano a mancare in ciò che si tenta di fare oggi, in Gran Bretagna.
Si continua a insistere solo sul peso, sulle calorie calcolate e sui grammi di nutrienti e poco importa se di quel prodotto uno non ne consuma 100 grammi in una volta e nemmeno al giorno, così come nulla importa della dell’apporto di nutrienti e delle scelte non aritmeticamente misurabili.
Io mi chiedo, quale educazione alimentare dovrebbe ancora servire se basta uno sguardo alle luci del semaforo per scegliere? Immagino che molti penseranno: nessuna.
Si dirà: educare è un processo lungo, mentre qui siamo in emergenza, qualcosa andava fatto. E chi lo nega? Solo che adesso oltre che un percorso lungo educare apparirà inutile. Perché spiegare che certo, un ottimo prosciutto di Parma ha pressoché tutte le luci rosse, eccettuati forse gli zuccheri, ma questo non ne fa affatto un prodotto da evitare, bensì da consumare con piacere e gusto nell’ambito di una dieta bilanciata da giusti apporti di fibre e altri nutrienti di origine vegetale, risulterà troppo lungo e complicato, rispetto a scegliere solo etichette verdi!
L’adozione di questo semplicistico codice grafico, però, non si limiterà a porre nel nulla gli sforzi di chi fa educazione alla responsabilità alimentare, ma probabilmente si ritorcerà addirittura contro i suoi stessi, oggi entusiastici, promotori.
Fra le luci del semaforo infatti non si trovano protidi, glucidi (diversi dallo zucchero) e fibre: il semaforo può essere verde e, tuttavia, la composizione, per quanto attiene a questi elementi, essere del tutto squilibrata o le fibre (un classico nella dieta contemporanea) totalmente assenti. Insomma: come sempre accade quando si decide che qualche parametro conta più degli altri, avremo produttori che si concentreranno per avere semafori verdi rispetto a ciò che “si vede” e lasceranno nell’ombra ciò che “non si vede”. Magari, dovendo ingegnarsi e spendere in processi tecnologici atti a ridurre i cinque elementi sul banco degli imputati, faranno (ulteriori risparmi) sulla qualità delle materie prime. Oppure, altra consuetudine, faranno pagare i costi del balzello cromatico ai loro fornitori.
Mi colpisce dunque molto che questa scelta in materia di etichettatura venga percepita come neutra e ispirata a una effettiva salvaguardia del consumatore. Non sono mai stati neutri i Gda, che hanno alle spalle precisi committenti dell’agroindustria, non sono neutri gli studi su cui si basa il “semaforo”.
Per di più, quest’ultimo è viziato da una logica di brevissimo periodo, un po’ per le ragioni sopra esposte e un po’ perché abituato l’occhio a tutto quel rosso, il desiderio di consumare uno snack dolce o un salume qualsiasi farà premio su quello stratagemma grafico. Nel frattempo, però, chi ne avrà fatto le spese saranno quei prodotti di qualità che per loro tradizione produttiva non sono traffic light friendly, ma di cui nessuno sano di mente suppone un consumo nelle quantità che sono prese come unità di misura per attribuire il bollino rosso!
Chi di noi consuma 100 grammi di Parmigiano Reggiano al giorno? Ecco, basterebbe questa domanda a svelare che il semaforo non è uno strumento realmente corrispondente al bisogno del consumatore, cui servono invece educazione e recupero di valorialità del cibo, nel quadro di un equilibrio che non è il prodotto di un automatismo (bollino verde-compro-mangio), ma il frutto di una maturità che tiene conto di caratteristiche personali, tradizioni, fabbisogno calorico individuato persona per persona, gusto, stagionalità, tipicità, qualità e sicurezza.
Per questo, il pur volenteroso sistema di colori non può che apparire come la punta più avanzata di un modello di consumo del cibo che deprime la viceversa fondamentale importanza del nutrimento (che è ben lungi dall’essere solo benzina per il nostro motore) in virtù di una perdurante perdita di capacità e opportunità di scelta da parte dei cittadini. E questo non ci pare davvero accettabile.
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