by Sergio Segio | 23 Ottobre 2013 9:11
DUBLINO. Le ultime elezioni presidenziali irlandesi, tenutesi nell’ottobre del 2011, hanno consegnato il ruolo di Capo dello Stato al poeta, saggista, e attivista Micheal D. Higgins. Ex professore universitario di scienze politiche e sociologia in Irlanda e in America, Higgins ha ricevuto nel 1992 il primo Premio per la pace «Sean McBride», conferito dall’International Peace Bureau. Eletto con quasi il 40% delle preferenze, è divenuto il nono Presidente d’Irlanda, non solo della Repubblica d’Irlanda su cui ha giurisdizione il suo mandato. Questo perché nonostante la Repubblica si limiti ancora oggi alle 26 contee del Sud, la costituzione irlandese parla di un «territorio nazionale» di 32 contee, con l’inclusione delle 6 dell’Ulster ancora sotto la corona britannica.
Per ironia della sorte, la bella residenza presidenziale, Áras an Uachtaráin, situata nel mezzo dello sconfinato Phoenix Park a Dublino, è lo stesso luogo che prima della guerra d’Indipendenza ospitò il viceré e luogotenente della Corona, fino a quel fatidico 1922 in cui si ebbe il passaggio delle consegne allo Stato Libero d’Irlanda di Michael Collins. Higgins ci accoglie cordialmente nei locali della residenza presidenziale, in compagnia della moglie Sabina.
Presidente, le ferite della storia, in quella che è stata definita la «tradizione duale» dell’Irlanda, sono evidenti sia nella cultura irlandese che nei suoi scritti. L’Irlanda, dopo esser stata per molti anni un esempio di prosperità, è divenuta il centro di una profonda crisi finanziaria ed economica. Ma la crisi attuale sta portando a nuovi tipi di povertà che ci ricordano del passato, quando l’Irlanda veniva spesso ritratta come una terrà di miseria e indigenza.
Non credo che l’Irlanda abbia mai romanticizzato la povertà. Era questo il modo di vedere di chi viaggiava per l’ovest dell’isola, prima o dopo la grande carestia (1844-47 ndr), quando la popolazione passò da otto a tre milioni di persone per morte ed emigrazione. Tutto ciò ha creato un’atmosfera che dava l’impressione di una sorta di povertà endemica. In tempi moderni l’Irlanda è stata descritta come una piccola economia aperta. Quando è entrata nell’Unione Europea si è liberata dal giogo della dipendenza dalla Gran Bretagna. Abbiamo visto un aumento della ricchezza. Ma poi, all’interno della bolla immobiliare, ci si è illusi di poter diventare ricchi semplicemente vendendo case. Metà della nostra disoccupazione proveniva direttamente dai ranghi dei lavoratori edili; qualcosa di simile è avvenuto in Spagna. Ma la grande questione etica di oggi è: come stabilire le responsabilità, a chi dare la colpa? Chi ha creato tutto ciò? Chi ha influenzato il sistema bancario e creato un’economia finanziaria tanto differente da quella reale? In Irlanda l’economia reale va bene, ma la gente soccombe sotto una nube originata da quella che possiamo definire una «economia fittizia». È un mondo di finzione. Questo mondo finto ha creato conseguenze per cui è molto difficile individuare delle responsabilità. Non si parla pubblicamente di assiomi riferibili al sostrato intellettuale di modelli economici differenti, come quello di Keynes ad esempio. Il discorso dominante è su come risponderanno i mercati, o su come reagiranno le agenzie di rating a questa o quella decisione. Tutto ciò crea il pericolo di una crisi di delegittimazione, quando per prendere le decisioni ci rivolgiamo a quei presunti esperti a cui è impossibile dare la colpa, i quali agiscono sulla base delle loro stime astratte. Credo che se mai esistesse una possibilità di salvezza all’interno di un simile discorso, questa sarà offerta dal pensiero nuovo e originale di tanti giovani economisti del Sudamerica.
Dai suoi scritti emerge come i nostri destini di esseri umani siano inevitabilmente collegati. Non esistono due sole persone sul pianeta le cui vite non siano interconnesse. Le sue poesie sull’America Centrale testimoniano di un impegno a non voltare lo sguardo dalla realtà. È questo il suo vero messaggio della sua poesia? Che dovremmo esser capaci di guardare oltre i nostri occhi, oltre il nostro io, per sfiorare l’umanità in una dimensione intima, che in questo modo diviene condivisa e pubblica?
Sì. Quando ero a El Salvador bisognava decidere se andare a visionare i cadaveri gettati nelle discariche. Le vittime venivano uccise di notte. Con lo stomaco aperto in due. E alle otto del mattino i corpi li portavano all’obitorio. C’era bisogno di decidere, con la persona con cui mi trovavo, se andare o meno alla discarica alle sei e mezzo del mattino. Allora mi colpì il pensiero che, in tanti casi, quanto vediamo può avere un enorme effetto su di noi. Possiamo permettere che ci cambi la vita per sempre. Non c’è modo di proteggerci. Vedere la fame, chi muore di fame. La morte. Più tardi, nella mia vita, ci sono volute sei settimane per riprendermi, dopo che in Somalia in mezzo alla carestia, un bambino mi è morto tra le braccia. È in questo senso pratico e immediato che, se opti per la «tattica della sopravvivenza», rischi di finire tagliato fuori dall’esperienza. Bisogna in realtà costruirsi un modo per affrontarla moralmente, fisicamente, e psicologicamente. E non è affatto semplice. Ma mi interessava anche l’individualismo che circonda le cose e che ci rende la vita facile.
Tempo fa lei ha scritto «la nostra biografia deve essere collegata alla storia». Ritiene che il passato e la storia d’Irlanda siano ancora un’ossessione per il presente, e per le esistenze della sua gente?
Sarebbe impossibile, credo, comprendere l’Irlanda e la storia irlandese senza capire fenomeni come l’esilio, l’emigrazione, e la dislocazione. Di certo, l’impulso di sfuggire alle maglie dell’Impero, che inizia a prendere vigore alla fine del diciannovesimo secolo sotto l’egida della cultura, è divenuto nel ventesimo secolo una discussione sulla necessità pratica di ottenere l’indipendenza, un’indipendenza che avrebbe incluso diverse contraddizioni. E così abbiamo ottenuto una separazione attraverso la quale viene certificata la dimensione di quell’impulso verso l’indipendenza. In altre parole, si tratta di un’indipendenza costituzionale in senso nazionalista. Poi all’improvviso, come direbbe Declan Kiberd, scrittori divenuti di punta alla fine del diciannovesimo secolo hanno scoperto in quegli spazi ristretti e censorii di non aver ereditato alcuna bohème; e allora hanno provato, o a lasciare il paese per poterlo osservare e scriverne, oppure ad assurgere a un qualche ruolo all’interno della nazione, che gli permettesse di tenere l’Irlanda distante da se stessi, nel tentativo di comprenderla.
Presidente, lei oltre ad essere un poeta, è stato un politico di spicco del Labour Party irlandese e un professore universitario. L’Irlanda è da sempre un luogo in cui la politica e la cultura sono un tutt’uno. Il poeta e premio Nobel Yeats era un senatore dello Stato, il drammaturgo Sean O’Casey un noto sindacalista. Quale spazio viene lasciato ai poeti e agli artisti nella società irlandese contemporanea? E quali sono le loro responsabilità, per usare un termine caro a Seamus Heaney?
Oggigiorno i poeti sono probabilmente le persone che ancora godono di una certa fiducia da parte della gente; sono loro che hanno contribuito, probabilmente, alla reputazione internazionale dell’Irlanda. Questo inizia ad essere riconosciuto; abbiamo giovani poeti che scrivono pensando al contesto, alle contingenze in cui si trovano. Credo sia molto interessante parlare di poesia a ridosso della morte di Seamus Heaney, un uomo che ha creato straordinarie connessioni con i miti greci, con il mondo della poesia dell’Europa centrale e orientale, e con il mito irlandese. Tutto ciò ha fornito a Seamus l’agio di poter parlare dell’attualità. Credo che lo status del poeta sia in realtà cresciuto. Quanto ho appreso dal mio tentativo di dar voce all’istinto poetico è il rispetto per la lingua. Ho ben chiaro cosa intendesse Havel nel dire che «le parole possono uccidere, le parole possono liberare». Oggi ci troviamo di fronte al fallimento di un paradigma. Le aspettative della gente sono state deluse, l’assioma di una crescita senza fine, di poterci arricchire all’interno di una bolla immobiliare, sono disperatamente crollate. E sono in tanti a non sapere come ritrarsi da questo paradigma fallito. Sto cercando in tutti i modi di usare la mia posizione perché si sviluppi una critica radicale a qualunque certezza offerta dai modelli economici, e riguardo alle connessioni tra l’economia, la società, e la cultura. È molto difficile, oggi, perché c’è bisogno di una narrazione internazionale. Ad esempio, in passato potevamo pensare che fosse lo stato a prendere ogni decisione normativa o di controllo riguardo alla partecipazione e alla proprietà, ma ora abbiamo un «capitalismo fittizio senza confini». C’è un assoluto bisogno di tornare a principi basilari in termini di interconnessione globale, di etica globale, in ogni senso; allora, anche i meccanismi della solidarietà ne saranno automaticamente modificati.
In parte, l’identità irlandese va individuata in quel che chiamiamo «l’Irlanda rurale». Vi affondano le sue radici, ma la sua vita è stata vissuta principalmente sulla scena internazionale, nelle Americhe e ora in Europa, da Presidente di uno Stato Membro. Come si confronta con il «ruralismo» nei suoi scritti?
Prima di morire Seamus Heaney ha rilasciato un’intervista in cui disse di non aver mai scritto troppo di Dublino, e d’esser considerato, comunque, quasi uno scrittore dublinese. Quanto abbiamo sperimentato a livello sensoriale, credo, è quel che resta più radicato nella memoria. Ed è solo quando rompiamo i ponti col presente che torniamo alle esperienze ricordate più intensamente. Quando ero uno studente post-laurea negli Stati Uniti, di notte mi consideravo un uomo senza alcuna connessione con il mondo. Erano nottate lunghe. Io scrivo spesso della notte. La mia nuova poesia, quando tornerò a scrivere poesie, sarà proprio sulla notte; ecco quello a cui sto faticosamente lavorando al momento: «The night is long and I awake / Remember the night is long and I awake…».
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