Il Cavaliere vice del suo vice

by Sergio Segio | 3 Ottobre 2013 8:02

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 Soltanto una collega svedese vagola in preda all’angoscia, come certi turisti abbattuti dall’afa e dalla sindrome di Stendhal: «Ma che succede? Qualcuno può spiegarmi?». Erano arrivati tutti al richiamo della grande giornata storica ed eccoci a raccontare la solita replica dell’8 settembre all’italiana. Un 8 settembre della destra, dove Berlusconi è allo stesso tempo Mussolini, Badoglio e il re, ma l’annuncio rimane lo stesso della guerra che continua a fianco dell’alleato, chiunque esso sia. Il generale ha firmato la resa senza avvisare i colonnelli, i quali hanno continuato a spararsi contro fino a notte fonda nei talk show. Sui banchi della destra campeggiano ancora in bella vista le copie del Giornale di famiglia, detto un tempo Il Geniale, con titolo di scatola «Alfano tradisce», mentre Berlusconi annuncia la fiducia al governo Letta. «Non senza travaglio», sia pur minuscolo. I falchi guardano le colombe, le colombe puntano i falchi, le pitonesse strisciano via: possibile? Da ieri il grande eversore è l’ultimo allievo di Andreotti («Se sei in minoranza, unisciti alla maggioranza»).
Berlusconi è diventato infine il vice di Alfano, in un hegeliano e spettacolare rovesciamento del rapporto servo padrone. Del resto i paradossi della giornata non si contano, ma una sola cosa è certa. Come leader Berlusconi è finito. Dopo la pagliacciata di ieri ha perso lo scettro del comando e non potrà mai più essere il candidato premier del centrodestra. Si è reso non candidabile.
Ed è curioso che a denudare il re non sia stato l’avversario politico, il Pd, e nemmeno le toghe rosse che non esistono. A farlo fuori sono stati i suoi cortigiani. Così è curioso che in fondo a un ventennio trascorso a combattere il nemico «comunista», Berlusconi non sia riuscito a distruggere la sinistra, ma in compenso sia ormai a un passo dal demolire la destra. La lascia a pezzi, immersa nel grottesco, ridotta a una ruota di scorta, anzi due, e senza un capo.
Tutto questo per inseguire un bluff. Da settimane scriviamo che Berlusconi non aveva alcun interesse a far cadere il governo e sull’orlo del baratro si sarebbe ritratto. La minaccia dell’arma fine di mondo era soltanto l’ultimo disperato ricatto di un leader ormai spinto ai margini da se stesso, dai propri comportamenti e reati, per ottenere un impossibile salvacondotto dal governo e dal Quirinale. Così è andata infine, ma il bluff è fallito nel più dilettantesco dei modi. La sfilata del voto di fiducia al Senato, che per ironica sorte comincia con la lettera B, è la fotografia di una resa incondizionata e senza l’onore delle armi. Si tratta appunto di una tragedia ridicola.
Nel confronto col duellante, Enrico Letta ne esce come un gigante. Non ha ceduto di un passo, altro che democristiano, ha indovinato il tono e le citazioni giuste, da Einaudi all’amato Gaber. «Si scannano su tutto e poi non cambia mai niente». Se Letta azzeccasse i provvedimenti di governo come le citazioni, forse non saremmo al 40 per cento di disoccupati giovani, al debito pubblico fuori controllo, ai trenta fallimenti ogni giorno e a mezzo Nord Est produttivo in fila alla dogana per portare le aziende in Svizzera, Slovenia e Carinzia. Senza contare che da domani si ricomincia da capo, per rimanere ai riferimenti del Letta cinefilo, e siamo sempre al giorno della marmotta.
La giornata storica finisce con l’immagine in fondo toccante di Scilipoti che si accosta a Berlusconi e gli sussurra consigli. Scilipoti è diventato il vero simbolo e modello della classe dirigente italiana, la cui principale arte è quella del galleggiamento e dell’impavida sfida al ridicolo. A febbraio, il risultato del voto era stato salutato da qualche politico straniero e da un bel pezzo di stampa estera come la «vittoria dei clown», anzitutto Berlusconi e Grillo. Il presidente Napolitano si era indignato, aveva preteso scuse. Chissà se a distanza di sei mesi e di tante pagliacciate, il presidente è ancora della stessa opinione.

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