by Sergio Segio | 28 Ottobre 2013 7:01
Come tutti i desideri che si rispettino, e nonostante la sua ingannevole umiltà, anche Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) di Francesco Piccolo è una proiezione di se stesso nell’impossibile, una tensione destinata a non trovare mai il suo punto di approdo e una sfida consapevole al principio di realtà. Se valutassimo questa aspirazione secondo il metro del buon senso, tanto varrebbe desiderare di essere migliori o più belli di tutti gli altri. Nel libro di Piccolo, poi, le cose si complicano notevolmente perché il significato di quei «tutti» non è per nulla generico, non se ne sta lì come un semplice bersaglio di cartone sul quale prendere la mira. Al contrario, si potrebbe dire che il vero argomento affrontato da Piccolo sia la ricerca di un significato possibile a questa parola, «Tutti», che campeggia a caratteri cubitali sulla prima pagina dell’«Unità», all’indomani degli immensi funerali di Enrico Berlinguer, celebrati il 13 giugno del 1984.
Quel giorno, il ventenne Piccolo se ne era rimasto a casa sua, a Caserta, chiuso nella stanza dei genitori a guardare i funerali in tv, piangendo e sollevando il pugno chiuso, seduto su una scomoda poltroncina, col timore dell’arrivo imprevisto di un genitore o di un fratello. Nessuno, per sua fortuna, violò la solitudine del momento e lo scrittore regala a noi l’imbarazzante privilegio di sorprenderlo in quell’assurda posizione, spiacevole ed enfatica al tempo stesso, dunque inevitabilmente comica.
Piccolo è diventato nel corso del tempo un maestro di questi rapidi autoritratti, che hanno il merito di rendere credibile il percorso di conoscenza in corso. È vita ed è nello stesso tempo esercizio intellettuale, senza che l’una ostacoli l’altro o viceversa, in una specie di pirandellismo a oltranza, specializzato nel cavare sorprendenti gocce di saggezza dal futile e dall’aleatorio. È un buon metodo, capace di produrre frutti memorabili; ma un bravo scrittore non si può accontentare di questo. Alle soglie dei cinquant’anni, Piccolo ha deciso di allargare decisamente l’orizzonte.
Il desiderio di essere come tutti è un’autobiografia politica o, meglio, la storia di un individuo che percepisce se stesso come appartenente a una comunità. Fatti di natura privata si intrecciano a un lunghissimo segmento della storia civile dell’Italia, quarant’anni suddivisi in due parti, la prima intitolata a Enrico Berlinguer, la seconda a Silvio Berlusconi. Come si sarà intuito dalla scena dei funerali di Berlinguer seguiti in televisione, il protagonista di questa storia è un ragazzo, poi un uomo di sinistra.
Come tanti della sua età e delle sue idee, anche Piccolo può affermare che la sorte, dal punto di vista politico, non gli ha riservato nulla di bello, nemmeno una di quelle stagioni esaltanti che ogni generazione aspira a vivere. Lui però, non scrive per lagnarsi. La mancanza di una cosa è un oggetto altrettanto interessante della cosa stessa. La cosa che manca, ed è sempre mancata, è una duratura vittoria della sinistra, assieme a tutte le possibilità storiche che questa avrebbe comportato.
Ma la sconfitta non è solo la mancanza di vittoria: essa infatti è capace di produrre un intero modo di vedere il mondo e in definitiva un modo di essere. Piccolo descrive un dramma collettivo di proporzioni gigantesche, tale da suggerire anche al suo stile perplesso e suadente certe inusuali punte di solennità o di stizza. Ci racconta una lunga e spaventosa metamorfosi, psicologica ancora prima che ideologica, che ha condotto la sinistra ad albergare in sé un sentimento di «purezza» morale capace di erigere un muro fra sé e l’avversario. E ci fa vedere come questa pretesa di superiorità, che confonde l’etica e la politica come in un gioco delle tre carte, non può che aver trasformato la sinistra in una grande forza conservatrice, custode di valori nobili ma immutabili nel tempo, indiscutibili, impermeabili al cambiamento.
Come tutti hanno potuto vedere con i propri occhi e come Piccolo racconta magistralmente, questa catastrofe intellettuale della superiorità ha trovato l’impulso finale con l’avvento di Berlusconi. Noto con piacere che Piccolo non manca di aggiungere alla lunga lista dei sintomi di questa specie di malattia mentale collettiva anche il verbo «resistere», svuotato di ogni credibilità da un uso davvero dissennato. Flannery O’Connor una volta ha scritto che c’è gente che vive «in un mondo che Dio non ha mai creato». Mi sembra una splendida definizione di questo carcere piranesiano della purezza e della conservazione descritto da Piccolo. Che invece non ce la fa a sentirsi superiore agli altri per un motivo del tutto opinabile e personale, ma proprio per questo decisivo: lui, in questi vent’anni, ha goduto di una vita felice. Nonostante il fatto che gli eventi della politica producano in lui notevoli riflessi interiori e nonostante il fatto che non ci sia giorno che non gli porti delle amarezze da quella parte, non può tacere questa verità. Se avesse avuto una malattia grave, se avesse perso una persona cara, se fosse finito nei guai con la giustizia, la sua felicità sarebbe stata sicuramente diminuita o estinta. Berlusconi invece non ce l’ha fatta.
Ne possiamo dedurre, con la certezza di un corollario matematico, che questa sfera d’esistenza rappresentata dalla lotta politica, che appassiona Piccolo così come ci si può appassionare al calcio o all’arte contemporanea, non possiede i requisiti necessari a determinare la soddisfazione, l’interesse, lo spavento, l’erotismo che le esperienze davvero decisive riescono a suscitare in noi. Per utilizzare la celebre distinzione di Jacques Lacan, non si può negare alla politica un grado, seppur minimo, di realtà, ma di sicuro essa non fa parte del «reale», inteso come ciò che ogni singolo individuo sperimenta come «insostenibile», sia nel dolore sia nella gioia. La più profonda verità morale che si possa cavare dagli ultimi venti anni è che Berlusconi è sostenibilissimo. Di certo, perlomeno, non fa parte del reale quella melassa di opinioni, buoni sentimenti e inani risentimenti prodotta da un ambiente intellettuale talmente separato dal mondo da essersi convinto, in buona fede, di vivere sotto il tallone di una dittatura, sempre dichiarando di voler vivere altrove e mai togliendosi effettivamente dai piedi.
Francamente, mi convince poco la strategia fin dal titolo messa in atto da Piccolo per evadere da questa palude. Sono d’accordo sul fatto che chi la pensa come noi non ha mai nulla di importante da insegnarci, ma non nutro una stima dell’umanità tale da pensare che in quei «tutti» che lo scrittore desidera raggiungere, dall’altra parte dell’inutile barricata, ci sia qualcosa di così prezioso. L’unica cosa davvero trasversale che esiste nelle nostre democrazie è la stupidità. Sarei più incline alla fuga solitaria, al rispondere solo di se stessi, al distacco totale dall’idra morbosa dell’opinione.
Ma non dimentico che quello che ho appena letto non è un saggio, ma un romanzo. La differenza tra un saggio e un romanzo non è nello stile e nel linguaggio, ma nel fatto che nel secondo si indica una strada che può valere solo, fino in fondo, per chi l’ha scritto. Quello che davvero vale per tutti, invece, è l’amore viscerale di Piccolo per il presente, il suo rimanere ben piantato nella vita che gli è toccata, quell’assoluta, purissima incapacità di stare altrove che ci ha raccontato fin dai suoi primi libri. È con un brivido di empatia e complicità che lo ritroviamo ancora qui, che in fondo è l’unico posto dove si possa stare con dignità e con spirito poetico, sempre a caccia dei suoi momenti di felicità.
I menagrami e i moralisti non ci crederanno mai, ma è un’attività che basta da sola a riempire un’esistenza.
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