by Sergio Segio | 25 Ottobre 2013 7:43
MILANO — Quando lo Stato gli ha presentato il conto, aveva già perso tutto. Doveva 180mila euro di Iva all’Agenzia delle entrate ma intanto i suoi dipendenti gli avevano voltato le spalle, e non era bastato mettere in vendita i macchinari, il capannone, tutto quello che restava di un’azienda che nei momenti migliori aveva dato lavoro a quasi novanta famiglie. Insieme allo scheletro della ditta, gli restava il processo penale, e solo ieri all’imprenditore — residente a Novate Milanese, di mezza età, sposato con una figlia — è stato riconosciuto che quelle tasse le avrebbe pagate se solo la crisi non lo avesse soffocato fino a ucciderlo.
Accusato di essere un evasore da 180mila euro, è stato assolto dal gup di Milano Carlo De Marchi che ha fatto sua la tesi degli avvocati, Luigi Giuliano Martino e Marco Petrone. I legali hanno portato in dibattimento i numeri impietosi delle scritture contabili, la storia paradigmatica di un’impresa travolta dallo tsunami della crisi del 2009 e da allora rimasta in ginocchio. L’uomo, distributore di prodotti informatici, è stato prosciolto perché “il fatto non costituisce reato”. Perché, non si ravvisa la “volontà di omettere il versamento”. L’imprenditore «non aveva versato all’erario l’imposta, per la difficile situazione economica dell’impresa — hanno spiegato i difensori — il giudice non ha ravvisato la volontà dell’imputato di omettere i versamenti ».
Il loro assistito, accusato di «omesso versamento di Iva», era stato condannato a sei mesi di reclusione convertiti in una multa di oltre 40mila euro. I difensori, però, si sono opposti al decreto penale e hanno chiesto il processo in abbreviato. E hanno dimostrato che nella contabilità, spese e ricavi erano riportati fedelmente ed «era da escludersi ogni intento di evadere». A impedire di pagare, è stata invece la «difficile situazione economica dell’impresa e la crisi finanziaria del Paese». In concreto, la concorrenza degli importatori stranieri, la perdita di liquidità, i ritardi nei pagamenti, il blocco del credito bancario. «Alla fine anche i miei dipendenti mi hanno abbandonato — dice l’uomo — . Hanno visto la situazione sempre più critica e se ne sono andati, solo gli ultimi li ho licenziati io». Proprio la regolarità delle scritture contabili — insieme con l’adesione da parte dell’imprenditore al concordato preventivo, prima che scadesse il suo debito col fisco — sono alla base della decisione del giudice, che motiverà la sentenza entro trenta giorni. «Credevo in questa decisione. Spero di aver messo un punto fermo a una storia che ha lasciato il vuoto dentro di me», ha l’imprenditore ai suoi legali — Perdere un’azienda creata dal nulla è come perdere un figlio. Ci ho messo tempo, soldi, affetto, orgoglio». Prima della crisi, nemmeno un piano di rinnovamento ha salvato la sua creatura. «Ora riparto da zero, co.co.pro. in un’altra società di elettronica. Per ora va così, ma spero ancora in una azienda mia, spero ancora di ripartire».
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