by Sergio Segio | 2 Ottobre 2013 7:34
Questo è il senso del singolare libro di Ulf Peter Hallberg, Trash europeo, ora felicemente tradotto in italiano e introdotto da Massimo Ciaravolo per le edizioni Iperborea, cui si deve tanta conoscenza delle appartate letterature nordiche, che così spesso sono state anticipatrici e rivoluzionarie stazioni metereologiche della modernità.
Hallberg è uno delle più originali, fresche e umane figure della letteratura svedese; uno scrittore esperto delle ambiguità che ha conservato — caso raro fra i letterati — semplicità e purezza di cuore, quella schietta capacità di rispettare e di amare che Bernanos, riferendosi a Péguy, chiama «fedeltà ai fuochi di bivacco della propria giovinezza».
Nato a Malmö e abitante da molti anni a Berlino, Hallberg ha iniziato ventenne a scrivere per il teatro, ha studiato letteratura a Lund lavorando come portuale e come tipografo, si è laureato con una tesi su Musil e ha tradotto Shakespeare, Schiller, Brecht e i Passages di Benjamin, che gli hanno insegnato l’arte del flaneur, del vagabondo che passeggia tra rovine del passato ed epifanie del futuro, fra boschi e città, cogliendo con tenerezza l’universale nell’effimero dettaglio. Il libro che ha segnato per lui una svolta è infatti Lo sguardo del flaneur (1993), tradotto in italiano; la sua «poetica dei luoghi» come la chiama Massimo Ciaravolo, mi è molto congeniale per la simbiosi di pietas, ironia e malinconia.
Pluripremiato, Hallberg ha scritto diversi romanzi e saggi, quali Grand Tour (2005), Leggende e menzogne (2007, un cui capitolo è apparso col titolo Il calcio rubato nel 2006), Il senso della vita e altre preoccupazioni (2010, con Erland Josephson) o La risacca delle città (2011, con Carl Henning Wijmark). Il suo romanzo più impegnativo, L’ombra di Strindberg nella Parigi del Nord, è del 2012. Se Benjamin parlava della perdita dell’«aura» dell’opera d’arte contemporanea, Hallberg vuol difendere l’aura della vita e del suo significato. Il protagonista assoluto del libro è il padre, suo padre, bizzarramente ignaro di ogni successo e di ogni logica sociale, ma sovrano di ciò che viene ingiustamente deprezzato quale spazzatura, inesausto collezionista e raccoglitore di tutte le cose possibili che trasmettono il senso e il calore della vita, cianfrusaglie che dicono l’unicità, l’universalità dell’esistenza e dei sentimenti. Perché questo titolo? gli chiedo incontrandolo a casa mia a Trieste.
Hallberg — Con questo titolo ironico volevo alludere al fatto che oggi molta gente considera l’amore per l’arte, amore che nel romanzo il padre incarna all’estremo, qualcosa di incomprensibile e privo di valore, un antiquato dovere. Una volta, al Central Park di New York ho sentito una donna americana che parlava con entusiasmo di Shakespeare e degli impressionisti francesi e che venne interrotta brutalmente dal marito: «Senti Sally, sai che non sopporto il Trash europeo».
Ecco il titolo per il mio romanzo, ho pensato. Mio padre era un re di questa «spazzatura» europea; a 87 anni sembrava un ragazzo pieno di vita e di benessere, anche se era povero ma nutrito di questo amore per la bellezza e la tenerezza, un amore che mi ha fatto ricco per sempre. Del resto mi sembra che anche tu, che anche i personaggi-narratori dei tuoi libri abbiano questo amore…
Magris — Sì, siamo in sintonia. La vera spazzatura — non quella falsamente ritenuta tale — è un modo di essere e di sentire, un’intima mancanza di rispetto; è soprattutto una passiva e pretenziosa acquiescenza alle sciocchezze che vengono imposte. Trash non è tanto quella signora francese autrice di un bestseller sulle sue prestazioni sessuali, quanto quel vescovo che è andato a discuterne con lei in televisione; non è solo quel senatore che ha offeso un ministro per il colore della sua pelle, ma sono anche coloro che, dopo questa sua eruttazione, continuano a salutarlo e magari a dargli la mano. Il tuo libro è pervaso da un amore — non sentimentale, vero ed asciutto, senza ombre — per tuo padre. La letteratura ci ha dato invece, generalmente, almeno da più di un secolo, ritratti critici, duri e aggressivi della figura del padre, vista per lo più negativamente…
Hallberg — Volevo rappresentare un padre così come l’ho avuto nella parte migliore della mia vita, ma come ne ho visti anche altri nel mondo; un sognatore che, come dice Schiller nel Don Carlos, anche in tarda età è fedele agli ideali della sua giovinezza. Padri così esistono. Uomini che s’incamminano su strade laterali e diverse, che conservano qualcosa di puro e di ingenuo, uomini dal portamento diritto. Anche nei periodi economicamente più difficili della mia vita mi sono sentito felice e privilegiato perché mi ha trasmesso sensibilità, curiosità, entusiasmo. È per questo che amo, nei tuoi libri — specie in Microcosmi — il senso dell’unità della vita e dell’amore anche nel fallimento e nel naufragio, la luce della radura davanti al buio del bosco e il gioco dei raggi nell’ombra, la lacerazione e insieme l’indistruttibilità dell’amore. Quella figura della donna amata che sparisce nell’ombra della morte ma continua a essere presente. Questo senso dell’eternità dell’attimo, che aveva pure mio padre. Anche per te il padre è una figura fondamentale?
Magris — Devo a mio padre e a mia madre — certo, anche ad alcuni amici e amiche — quasi tutto ciò che di buono c’è in me. Mio padre ha contribuito in misura determinante a formare il mio mondo fantastico e morale; a farmi capire ciò che si può e ciò che a nessun costo non si può fare. Non ho il suo coraggio, ma almeno so cos’è. Ma soprattutto mi ha fatto toccare con mano come autorevolezza e autorità possano e debbano essere pure fraterne, far sentire all’altro — in questo caso, al figlio — la pari dignità nel rapporto e nel dialogo. Questo mi ha permesso di avere un rapporto felice con gli altri «padri» che ho avuto, i maestri, i maestri tanto maggiori di me ma soggetti pur essi a sbagliare e dunque, rispetto a me, nella concretezza del dialogo, talora, in qualche momento, anche più piccoli. Quando discutevo con Canetti o Singer sapevo ovviamente benissimo che loro erano dei geni e io no, ma sapevo che talora potevano essere loro a capire le cose meno di me e dunque che ogni dialogo è sempre fra pari. Altra cosa è la grande famiglia, il clan del parentado; talvolta è un epos affascinante — come in Fanny e Alexander di Bergman — e talora è ossessivo e fagocitante e risucchia, scrive Kafka, l’individuo nella pappa informe delle origini. Gide diceva: «Quanto vi odio, famiglie».
Ma tu descrivi la passione di tuo padre per il collezionismo, e il collezionismo — penso a grandi pagine di Broch su questo tema — è spesso mania di possesso, ossessione feticista, idolatria di cose morte e dunque amore della morte…
Hallberg — Per mio padre ogni dettaglio conteneva la totalità. Quando ero piccolo era abbonato a tutti i quotidiani scandinavi e ritagliava sempre gli articoli più importanti; io e mia sorella ci addormentavamo al fruscio di quelle carte tagliate nella camera adiacente. Non sono un collezionista, semmai cerco di scuotermi le cose di dosso, ma in fondo cosa sono i miei centotrentasette quaderni di appunti? Mia moglie e i miei figli mi guardano con un misto di benevolenza, compassione e indignazione, come io guardavo mio padre. Avrei bisogno di un museo, come quelli di Bilbao o di Parigi, con la scritta Trash europeo. Ma anche in Danubio ci sono collezionisti pure maniacali, come l’ingegner Neveklosky. E tu?
Magris — Sono del tutto indifferente al collezionismo vero e proprio; non mi interessano minimamente i francobolli né le prime edizioni o quelle pregiate di un libro, i fossili, le stampe antiche. Raccolgo tante cose, ma solo quando ognuna di esse ha un particolare valore curioso o affettivo per me: i sassi bianchissimi delle spiagge di Cherso, soldatini rotti e scalcagnati della mia infanzia, che a Natale metto nel Presepe, qualche oggetto isolato che per qualche ragione mi colpisce, qualche sparsa fotografia come le ultime di Marilyn Monroe, oltre a cose strettamente personali del mio vissuto. Una varietà eterogenea e ignara di ogni criterio e di ogni completezza. Ma vorrei farti un’ultima domanda: nel tuo libro, così preciso e amorosamente attento all’oggettività quotidiana, ci sono dei salti temporali, Baudelaire compare nella New York dell’11 settembre. Cosa significa?
Hallberg — Tutto è sempre compresente, come i libri in una biblioteca. C’è nella vita una dimensione aldilà della successione temporale. I vivi e i morti coesistono, gli uni accanto agli altri. Anche tu esprimi spesso intensamente questo senso…
Magris — Sì, le persone, i sentimenti sono. Il tempo autentico è il presente vissuto a fondo senza essere sacrificato al futuro, come scrive Michelstaedter; il kairòs, l’attimo pieno di autentico significato. Anche la vita eterna, scrive Joseph Ratzinger nel suo libro su Gesù, non è un tempo indefinitamente prolungato bensì la pienezza della vita vera, la vita eterna è «che conoscano Te e colui che hai mandato», dice Gesù.
Hallberg — Oggi, sul tavolo della tua cucina, ho copiato nel mio quaderno una frase del tuo Un altro mare. «La persuasione, dice Carlo, è il possesso presente della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere pienamente l’istante…». Un’ora più tardi ho trovato, sfogliando uno dei taccuini di mio padre che mi sono portato dietro, la stessa frase, ricopiata anni fa da lui. Dunque anche mio padre viveva il «tempo ora», il sentimento di una perenne appartenenza reciproca. La cultura — quella che alcuni considerano invece spazzatura europea — per me è questo. Solo mio figlio è un po’ deluso, perché la sua insegnante crede che io abbia scritto un libro sugli attuali sistemi di eliminazione dei rifiuti…
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